In una delle prime pagine di Staccando l’ombra da terra, l’opera forse più nota di Daniele Del Giudice, il personaggio consulta il registro che documenta il suo primo volo senza tutela. Cerca la vidimazione dell’errore che ha commesso e che pure non gli ha precluso il brevetto di pilota: «sfogli le pagine, cerchi la dicitura, la firma che ti immette definitivamente nei luoghi del celeste errore, dove ogni errore è una cicatrice, ma non evita la ricaduta». Del Giudice narratore, nella sequenza dei suoi testi, ha innanzi a sé lo strappo che separa la sfera della vita dalla scrittura che ne fa racconto. La parola è un geroglifico che non rappresenta perfettamente la verità degli eventi. Mette in forma cifrata la loro materia, ma non esaurisce la sostanza dell’accadere. Resta una cicatrice, che mostra lo strappo mai perfettamente saldato tra parole e vita. La parola cicatrice riappare in un saggio su Calvino, contenuto negli scritti critici di Del Giudice, raccolti nel volume Del narrare (Einaudi, pp. 276 € 36,00) curato in maniera eccellente da Enzo Rammairone: «al termine del racconto resta tutt’al più una cicatrice laddove c’era una ferita».

Del narrare si divide in due parti, la prima relativa agli scrittori e la seconda organizzata intorno a questioni generali della narrazione. A presentarsi alla ribalta sono gli autori a cui Del Giudice è più legato per affinità etica e per consonanze letterarie: Primo Levi, Calvino, Stevenson, Conrad, ma anche Magris, Svevo, Thomas Bernhard e Verne. Il maggior numero di pagine è riservato alla indagine di Primo Levi, il narratore che ha messo mano, fin dall’inizio, «ad una vera e propria antropologia dell’uomo del Novecento». Il suo caso è esemplare, perché la concretezza delle situazioni vissute e «l’impegno etico a tendere alla verità come esito» non cancellano il ruolo dell’invenzione che restituisce gli eventi.

Il resoconto degli avvenimenti, per quanto essi siano inauditi, ha bisogno di «non minore phantasia, non minore creazione e costruzione che il racconto di un sogno». D’altra parte, la phantasia, contrapposta all’illusione della mimesis, implica «un’idea assolutamente probabilistica del rapporto tra parole e cose». Avvicinarsi a Se questo è un uomo implica per Del Giudice «rendere conto dello straordinario sforzo di scrittura, di fantasia, di immaginazione e di rigore conoscitivo» che l’autore adotta per raccontare Auschwitz e fare letteratura sull’orrore della storia. Alla forma spetta il compito di reinventare i fatti, rendendo narrativamente efficace «l’essenza di una persona, di un’anima, saldandola istantaneamente a un gesto, a un tono, a un tratto». Levi, come Conrad e come gli altri autori del panorama, diventa l’«eroe dell’etica del lavoro ben fatto e dell’errore», lo scrittore in cui Del Giudice ritrova una sostanziale affinità tra le proprie scelte e le soluzioni adottate. Esiste nella coscienza di ognuno una zona oscura, un fondo misterioso. Il compito delle parole è sondare questi abissi e «trasmettere in chiaro, esprimere, esprimersi e rendersi espliciti».

Alberto Savinio, marcando la propria differenza con il surrealismo di André Breton, aveva affermato di voler dare «forma all’informe e coscienza all’incosciente». Le predilezioni letterarie di Del Giudice sembrano andare in questa medesima direzione: gli scrittori amati stanno dalla parte della chiarezza più che dell’enigma. Calvino «scrittore di formazione» si affianca al Magris romanziere-saggista del Danubio. Lo Svevo di Senilità, anatomizzato come un romanzo senza uscita, oscillante tra il sogno, la bugia e la vita, convive con la scrittura rosa di Zweig, scrittore del mondo di ieri. La malattia delle parole troppo piene di senso di Thomas Bernhard si combina con il Freud narratore del Piccolo Hans, e poi ancora si allineano Stevenson e Conrad e infine Verne e la fantasmagoria di macchine viaggianti alla scoperta dell’ignoto.

Gli interventi che riguardano l’essenza della scrittura, ricondotta alle radici prime, ruota intorno a un termine specifico, a cui Del Giudice attribuisce un valore speciale. Per delineare meglio la questione, si serve di un indicatore spaziale, che ha il nome di zona. Con questo termini definisce l’area dentro cui nasce il romanzo come genere, soprattutto nella declinazione post-novecentesca del termine: «zona di detriti, materia calda e brulicante. Zona delle emergenze, di quel che emerge ai limiti del già conosciuto, informe, incompiuto, appena nato». Siamo nel cuore stesso di una letteratura modernista, protesa a nominare quell’oltre che condiziona le azioni, tanto individuali quanto collettive. In questi territori inesplorati non valgono le leggi tradizionali del racconto: «nessun personaggio si presenta come struttura, nessun racconto si manifesta come ‘trama’ e ricorrenza, o concordanza».

Dentro questa «materia magmatica», non esistono forme fisse. Piuttosto, ogni storia genera la propria forma, adeguata a rappresentare il mondo ignoto che sta affiorando. Solo registrando le spinte telluriche di una società in trasformazione, la letteratura entra nel campo di forze che definisce un’epoca intera: «vive dell’inquieto», «è conoscenza ed esperienza radicale della propria epoca, e previsione visionaria di quel che verrà». La risalita alla genesi dei propri testi – dallo Stadio di Wimbledon del 1983 all’Atlante occidentale del 1985 a Nel museo di Reims del 1988 – significa, per Del Giudice, mostrare in che modo ha attraversato la zona e quali problemi ha messo in gioco.