Al Premio Solinas Daniela Ceselli ha partecipato nel 1990, quando arrivò in finale con un soggetto scritto insieme a Melania Mazzucco, RH negativo. Erano i primissimi anni del Premio intitolato allo sceneggiatore sardo: «In commissione – ricorda lei – c’erano Age e Scarpelli», ed erano gli anni in cui il concorso non era ancora mai stato sradicato dalla sua isola: La Maddalena. Da quel momento Daniela Ceselli – anche docente di cinema alla Sapienza – ha firmato molte sceneggiature: tra le altre, insieme a Marco Bellocchio, quelle di Buongiorno notte e Vincere, oltre a quelle di entrambi i film di Paolo Franchi. Di recente è anche uscito un suo romanzo – L’amante alchimista – scritto con Sonia Rauele e firmato con lo pseudonimo Isabella Della Spina.

Cosa ha rappresentato per lei l’esperienza del premio Solinas?

Credo che sia un ottimo concorso per chi comincia: ai miei studenti suggerisco sempre di partecipare, perché si riceve un feedback da parte di professionisti del mestiere, che ti spiegano anche quali sono i problemi strutturali della storia che hai scritto. Nell’anno in cui sono arrivata in finale l’elemento più importante con cui venivano giudicati i lavori dei partecipanti era l’originalità e riuscire a costruire una struttura drammaturgica impegnandosi su un tema sociale. Cose che forse oggi appartengono alla preistoria.

Da docente della materia qual è il primo consiglio che darebbe a degli aspiranti sceneggiatori?

Di avere un’alta soglia di resistenza: si viene continuamente scartati, bistrattati, non letti. E serve anche una grande disponibilità a rimettersi in gioco, a gettar via ciò che si è scritto e ricominciare da capo. All’inizio si tende a essere molto affezionati alle proprie idee, ma il salto di qualità avviene proprio quando non si è più legati a una singola idea dea ma alla costruzione di una sceneggiatura, di una struttura che poi si riverbera su tutte le scene e i passaggi. Chiunque può scrivere una «bella scena», ma un conto è il singolo exploit e un altro la continuità, anche sofferta. Bisogna imparare la metodologia del processo: ostinatamente, passionalmente, con entusiasmo. Ben vengano quindi i premi alla sceneggiatura – magari ce ne fossero di più – ma sono un punto di partenza: il professionismo arriva dopo.

Come si armonizza il lavoro dello sceneggiatore con quello di tutte le altre persone coinvolte nel film? È doloroso dover affidare ad altri la propria creatura? 

Io non ho mai creduto in questo «dolore». La bellezza della sceneggiatura è proprio il suo essere un oggetto invisibile: passa di mano in mano, si contamina, vi contribuiscono tutti e diventa altro rispetto all’idea iniziale. Uno dei principali talenti di uno sceneggiatore è la sua flessibilità, la sua capacità di prendere spunti, storie e input dal mondo che lo circonda, compresa la «catena di montaggio» cinematografica. Una sceneggiatura si decostruisce in continuazione, è un oggetto fatto di potenzialità e non qualcosa di compiuto nel momento in cui si è finito di scriverla: la metafisica dell’ispirazione dei prodotti letterari non le appartiene. Quindi ben venga che la gestiscano un po’ tutti, che sia un prodotto dai mille volti, perché è solo così che potrà diventare un film. L’ha detto anche Pier Paolo Pasolini: è una struttura che vuole essere un’altra struttura. Una sceneggiatura è un prodotto in formazione, che prende vita proprio nel momento in cui si separa dallo sceneggiatore.