Uno straniero arriva in una città che non conosce, porta con sé valigie pesanti e molta stanchezza. Ha una moglie e un figlio da qualche parte, non è chiaro dove. Il viaggio è stato difficile, pieno di tortuosità e di imprevisti. L’uomo si ferma davanti alla casa che lo ospiterà, e indugia prima di entrare. Linee narrative asciutte e in tensione, che ritagliano un rapido quanto vago identikit del personaggio, incorniciano lo spazio romanzesco del nuovo libro di Daniel Mendelsohn, uscito in America nel 2020 e ora tradotto da Einaudi, Tre anelli Una storia di esilio, narrazione e destino (traduzione brillante e accurata di Norman Gobetti, pp. 106, € 16,00).

Nel segno dello spossessamento e della perdita, Mendelsohn prende subito le vie dell’autobiografia e si aggancia a una vicenda dei primi anni Duemila, quando, raccogliendo il materiale poi confluito nel romanzo Gli scomparsi, aveva percorso i rami della propria dispersione familiare e radunato i frammenti delle storie ascoltate da bambino: il suo era stato un viaggio in America, Europa orientale, Scandinavia e Israele, alla ricerca dei sopravvissuti, testimoni di una delle molte vicende ebraiche di persecuzione.

La prima tessera nei Tre anelli è il ricordo di questa cellula germinale, la storia della propria famiglia, il cui destino si compie, sulle rotte dello sterminio, a partire da una cittadina polacca addossata ai Carpazi: un punto dentro l’ampia geografia ebraico-orientale, luogo infinitesimale ma con valore di paradigma. Da qui, quando non sono tragicamente interrotte, si irradiano le molteplici direttrici dell’erranza e di un senso di estraneità che continuamente si rinnova.

Fra lui e il padre
Nel ricordo di questo viaggio, che è perlustrazione della memoria ma anche discesa in un vissuto ancora dolorante, il nuovo libro di Mendelsohn giustifica il proprio titolo avvitandosi ancora alle occasioni narrative precedenti e, dopo l’emersione del passato e il suo precipitare nella forma del romanzo familiare di inizio millennio, testimonia dell’impasse post-traumatica che ne deriva, del pensiero che si blocca, della scrittura che ristagna. Fino a ricongiungere l’autore al proprio passato di grecista e alla pubblicazione di Un’Odissea, dove lo scavo affannoso lungo la linea generazionale si distende e respira nell’incrocio con la trama omerica e con il suo riflesso nel rapporto, ormai dolcemente crepuscolare ma mai del tutto risolto, con il padre, compagno di viaggio in un itinerario circummediterraneo che rifà il percorso di Ulisse.

L’incipit dei Tre anelli mette in scena uno straniero: chi è? E dove porta il suo itinerario zigzagante e randagio? Potrebbe essere, lascia intendere l’autore, uno dei suoi parenti braccati, in fuga dall’Europa e approdati, di volta in volta, a Shanghai o a Stoccolma, a Istanbul o a Bondi Beach. Oppure, più indietro, uno dei dotti bizantini in esodo dalla Costantinopoli in mano ai Turchi Ottomani, alla metà del Quattrocento. O, ancora, un ugonotto che lascia precipitosamente la Francia in seguito all’editto di Nantes, o un ebreo scacciato dalla cattolicissima Spagna dopo il decreto dell’Alhambra. Nel suo volto si rintracciano, nel corso del tempo, fattezze siriane, curde, bosniache, angolane, ugandesi.

Il reticolo dello spaesamento, polverizzando i tragitti e dunque le linee narrative, viene da subito adagiato su un castone omerico che, a seconda delle inclinazioni dell’autore, è la matrice della storia e ancora, tre anni dopo Un’Odissea, la dorsale di questo nuovo libro da cui si dipartono, per gemmazione, le altre tessere narrative. Soprattutto, il ritmo del racconto è accordato al modulo fondamentale dell’epica omerica, la composizione ad anello, che stabilisce l’interruzione dell’andamento narrativo, per riandare a un momento precedente, e poi ancora più indietro, allo scopo di illuminare l’avvenimento attuale. Dopo il distacco dalla traiettoria rettilinea del racconto, con il richiamo di antefatti in progressiva profondità sulla linea del passato, il racconto si richiude appunto sul presente, tornando lì dove si era prodotto lo scarto.

Un viaggio forzato
La dinamica digressiva e divagante, in un andirivieni continuo tra ieri e oggi, che raggomitola le vicende per poi distenderle e riavvolgerle ancora, rimanda dunque all’epica omerica, che Mendelsohn assume come guida, un dispositivo romanzesco il cui perfetto correlativo, sul piano tematico, sta nella vicenda di Ulisse, nell’infinito girovagare, nel trasgredire confini, nel transitare e stazionare per poi, semmai, tornare a casa riannodando, come su un rocchetto, ogni volta i fili della propria esistenza.

A questo beat itinerante, Mendelsohn raccorda il tema dell’esilio, saldando insieme i tre anelli della sua storia nel segno del viaggio forzato e della lontananza. Il primo anello è riferito allo straniero Erich Auerbach, costretto a lasciare la Germania nella tarda estate del 1936 e a rifugiarsi in Turchia: Mendelsohn ripercorre la stesura del suo Mimesis, saggio composto in assenza di libri nella biblioteca universitaria di Istanbul, solcando con la memoria gli spazi delle letture accumulate in anni, da Tacito a Ammiano Marcellino, da Gregorio di Tours alla Chanson de Roland, da Dante e Boccaccio a Voltaire.

Da questa specola affacciata sull’azzurro del Mar di Marmara, il viaggiatore Auerbach addensa forse il più grande compendio della letteratura occidentale, tenendo sempre i due codici – la luminosa minuziosità dell’epica omerica cui nessun dettaglio fa difetto e la concisa opacità del dettato biblico, con la grumosa trama delle sue ombre – l’uno a fronte dell’altro. Lasciata la Turchia degli anni Trenta, il lettore di Mendelsohn viene trasportato nella Francia del Re Sole, altra stazione del viaggio contro cui si staglia il secondo anello, dedicato all’arcivescovo François Fénelon, le cui Aventures de Télémaque, riscrittura divergente e idiosincratica della telemachia omerica, nascondono appena una critica a Luigi XIV che non passerà inosservata al sovrano, causando il bando dell’autore dai fasti di Versailles e il suo esilio nel nord della Francia.

Sempre con la filigrana omerica a tenere insieme le tessere di questa tarsia dell’estraneità, il lettore passa dal secondo anello all’ultimo, la vicenda di Winfried Georg Sebald, che si autoimpone il confino in Inghilterra per vergogna nei confronti del padre nazista: la sua scrittura, a propria volta labirintica e serpeggiante, sonda sempre il tema del viaggio e dell’esilio, nell’ombra lunga dello sterminio.

Attraverso le pagine di Tre anelli, Mendelsohn compone una sinfonia della peregrinazione, tra il classico e il jazz, i cui nodi districare con pettine fitto, dall’ipotesto omerico alla triplice testualità che ne deriva, sfidando i generi, e piazzandosi al crocevia tra memoir, fiction, biografia, storia e critica letteraria, con una lingua sorvegliatissima e delicata, che mai gronda erudizione e dove davvero nessuna parola è di troppo.

All’ombra dell’Ulisse polytropos, dei mille giri della sua navigazione e del suo parlare, Mendelsohn tesse un racconto insieme rapsodico e classicamente misurato, dove le vite vagabonde dei tre moderni Odissei si intervallano alla propria, ugualmente attraversata da linee rette e deviazioni, direzioni certe e passi falsi, partenze e marce indietro, perdite e nuovi incontri.

Con eleganza quasi cantilenante, attraverso l’antica metafora del viaggio come divagamento, Mendelsohn paga il suo tributo all’arte della digressione, ovvero a quella strategia narrativa che, da Jean Paul a Borges, si ritrova non nella traiettoria rettilinea ma nello scarto, non nell’andare per la via maestra ma nel deviare e nel volgersi sempre altrove, dentro un tempo plurimo e ramificato, dove le infinite possibilità combinatorie dell’esistenza possono realizzarsi, per poi ancora disperdersi.