A un secolo di distanza, la Grande Guerra continua a ispirare oltre il cinema, anche la narrativa: nuovi romanzi appaiono con frequenza regolare e se alcuni sono presto dimenticati, altri – per esempio Regeneration, dell’inglese Pat Barker – sono diventati classici della post-memoria, quella forma di «ricordo» di chi non era presente ma ha costruito le sue immagini mentali attraverso la ricerca e l’immaginazione. Proprio muovendosi tra lavoro d’archivio e curiosità per i personaggi cui dà vita, Daniel Mason ha messo assieme il suo terzo romanzo, The Winter Soldier (2018), ora proposto in Italia da Neri Pozza nell’impeccabile traduzione di Ada Arduini, Soldato d’inverno (pp. 320, € 18,00).

Frutto di quattordici anni di lavoro, il romanzo – diversamente dalla stragrande maggioranza di narrazioni statunitensi sul primo conflitto mondiale – abbandona il fronte occidentale per raccontare la guerra sul fronte opposto. Lucius Krzelewski, ventiduenne rampollo di un’agiata famiglia polacca, che ha deluso le aspettative studiando per diventare medico, intravede nello scoppio delle ostilità una chance per passare dalla teoria alla pratica. I medici scarseggiano, dunque vengono arruolati anche studenti come Lucius, a un passo dalla laurea.

Dilemmi etici
Invece di essere assegnato a un vero ospedale, però, il giovane finisce in una chiesa sventrata dalle bombe di un piccolo villaggio tra i Carpazi, dove viene accolto, fucile alla mano, dalla misteriosa ma esperta Sorella Margarete. Sarà lei a insegnargli la professione, con fermezza, ironia e, alla lunga, dolcezza.

Se nel romanzo di Mason la guerra guerreggiata si vede poco, i costi umani del conflitto sono descritti con dovizia di dettagli. Laureato in biologia a Harvard e ora medico psichiatra presso la Stanford University, lo scrittore americano mette a frutto le sue conoscenze mediche per mostrarci tanto la sofferenza dei corpi quanto i tentativi, talvolta goffi e strazianti, di alleviarla; ma è soprattutto su una malattia all’epoca disconosciuta, e che sarebbe poi stata chiamata sindrome da stress post-traumatico, che si concentra il giovane dottore. Grazie alla sua ambizione, ridarà vita a «un corpo raggomitolato sopra un mucchio di tuberi», giunto all’infermeria in una carriola, un corpo che lo mette di fronte a dilemmi etici. È lui il «soldato d’inverno», Horváth, i cui progressi incoraggiano il dottore, che vorrebbe trattenerlo, nonostante i dubbi di Margarete: «Lei lo sta tenendo qui per il suo bene. Non per il nostro, spero». Gravi conseguenze attendono la scelta del dottore, che finirà col divenire egli stesso vittima di un trauma secondario. Consapevole di non aver saputo scindere il suo bene professionale da quello del povero Horváth, il medico Lucius patisce una ferita che si comincerà a rimarginare solo nell’agrodolce giustizia poetica delle pagine finali.

Ricollegandosi idealmente alle testimonianze più intense sugli ospedali da guerra pubblicate a ridosso del conflitto, Soldato d‘inverno mette in discussione l’idea di «cura», come già avveniva nelle pagine di Mary Borden, Enid Bagnold e soprattutto di Ellen La Motte. Con parole che alludono ai soldati feriti, Margarete si chiede: «Il nostro compito è rappezzarli e spedirli via, no?»; via vuol dire riconsegnate all’inferno della guerra: è coerente, questo, con il «giuramento» dei medici?

Un grande affetto per le parole
Ricchissima nella sua densità, la lingua di Mason è provvidenzialmente distante dai compiacimenti narcisistici di non pochi romanzi americani contemporanei; e anche sul piano della struttura, la narrazione si snoda in modo lineare, quasi fossimo in un classico dell’Ottocento, evitando complessi salti cronologici. Più che all’intreccio, l’autore sembra interessato al nitore delle descrizioni fisiche e naturali, mentre coltiva la psicologia dei personaggi, e del medico in particolare.
Lo sguardo di Mason preserva una forma di opacità, una ritrosia a spingersi nell’eccesso: per pudore, non per arretramento di fronte a chissà quali misteri impenetrabili. E forse è proprio tramite lo stile della sua scrittura che Mason prova a dare innanzi tutto forma a un concetto del «prendersi cura» che travalica il senso comune.

Sia che descriva un’operazione su un corpo straziato, sia che si guardi agli effetti della primavera sulla vegetazione dei Carpazi, o ai tormenti dell’animo del protagonista, lo scrittore americano rende palpabile il suo affetto per il mondo formato dalle proprie parole: un mondo il cui riscatto dall’oscenità della guerra si misura sia nella forma del lirismo sia in quella dell’ironia, che Mason alterna sulla pagina, impartendo ai materiali convocati il loro ordine.