Per alcuni artisti esiste una linea di confine molto sottile che separa creatività e follia. Daniel Johnston ha percorso tutta la sua parabola umana e musicale attraversando continuamente questa immaginaria frontiera e trovandosi spesso smarrito in un mondo che non riusciva a comprendere e a cui non riusciva ad adattarsi. Johnston è morto mercoledì scorso in Texas, a Houston, all’età di 58 anni per un attacco cardiaco. Il suo non è un nome conosciuto al grande pubblico, ma la sua figura è senza dubbio significativa e forse unica nel panorama musicale americano.

È STATO definito un outsider, un folk-hero, un musicista low-fi di culto, era nella sua semplicità e nella sua tormentata esperienza di persona affetta da schizofrenia, un cantautore che incarnava uno spirito artistico puro, in cui la musica rappresentava una terapia e un desiderio di fuggire al dolore interiore. La storia artistica di Johnston, nativo della California, inizia negli anni ’80 quando incide le sue prime canzoni in casa su un comune registratore con il sogno di diventare John Lennon. La famiglia si trasferisce in West Virginia, Daniel prova a frequentare il college, ma inizia a precipitare in crisi depressive sempre più gravi.

Negli anni ’80 è a Austin, città universitaria che all’epoca sta diventando un punto di riferimento per la scena rock indipendente. Johnston si fa conoscere distribuendo freneticamente le sue audiocassette e, in una stagione in cui anche il mainstream inizia a corteggiare gli artisti alternativi, viene scoperto nel 1985 da Mtv che gli dedica uno speciale facendolo diventare una piccola sensazione underground. Daniel sembra l’artista giusto, al momento giusto, nel posto giusto. Ma non è la persona giusta. Complici forse anche le droghe di cui inizia a far uso, i suoi disturbi diventano più gravi. Aggredisce il suo manager con una sbarra d’acciaio, ha episodi autolesionisti e si chiude in casa per quasi un anno. Ma la sua musica ormai si è fatta conoscere soprattutto grazie alla raccolta Hi, How Are You?.

NEL 1988 è a New York per incidere e suonare con una band di riferimento come i Sonic Youth, sembra ristabilito e si crede destinato a grandi cose. Durante uno showcase di fronte ad artisti e discografici ha una crisi maniacale, si mette a cantare inni religiosi e improvvisa monologhi sul diavolo. Il pubblico pensa che sia una trovata scenica, ma alla fine capisce che c’è qualcosa di più profondo. Johnston non riesce a reggere la vita pubblica e viene ricoverato. Il suo crollo mentale contribuisce paradossalmente alla sua fama. L’episodio più grave della sua malattia accade nel 1990 quando tenta di far precipitare l’aereo bimotore che sta guidando il padre credendo di poter volare. Da allora la sua vita è un alternarsi di ricoveri, periodi di recupero e riconoscimenti artistici. Proprio per questo, la stagione del grunge vede nel fragile cantautore un simbolo.

Kurt Cobain cita uno dei suoi album, Yip/Jump Music, come uno dei suoi preferiti. Johnston diventa suo malgrado oggetto di un’asta tra major discografiche che approda a un disco, Fun, inciso nel 1993 tra mille difficoltà e diventato un prevedibile insuccesso commerciale. Ma sempre più artisti interpretano i suoi brani e quelli che sembravano disordinati appunti sonori diventano straordinarie melodie.

NEL 2003 esce uno dei suoi dischi più compiuti Fear Yourself, l’anno dopo l’album celebrativo The Late Great Daniel Johnston, una raccolta in cui i suoi pezzi sono riproposti da Tom Waits, Beck, Bright Eyes, Death Cab for Cutie, Sparklehorse, Mercury Rev, Flaming Lips. Nel 2006 il documentario di Jeff Feuerzeig The Devil and Daniel Johnston è un bellissimo viaggio che ne racconta il genio e il tormento. Johnston ha rallentato poi la produzione musicale, incrementando quella di artista figurativo, l’altra sua grande passione. I tour hanno offerto un momento di sollievo in una condizione di salute sempre precaria e andata via via peggiorando. «Daniel è riuscito a creare nonostante la sua malattia. Non grazie a questa» ha detto di lui Jeff Tweedy dei Wilco. Johnston diceva di sé: «Il diavolo esiste sicuramente e conosce il mio nome».