Non si scrive se non di ciò che si desidera. E non si può desiderare se non ciò che assume i tratti limitati e contingenti della forma. Il cinema limita con l’inquadratura, e si apre alla contingenza del reale attraverso la “registrazione”: un grande film non può eludere questo doppio passo. E Serge Daney è stato l’ultimo grande critico cinematografico, la cui scrittura si è misurata con quel desiderio, che implica allo stesso tempo un’estetica ed un’etica: “Il cinema non è immagini ma inquadrature” – scrive riprendendo Rohmer – , e ancora “La verità del cinema è la registrazione, che possiede immediatamente una dimensione morale”.

E’ questo il destino del cinema moderno, inventato dal neorealismo, pensato da Bazin, guidato dai “Cahiers du cinéma” e concluso da Serge Daney, che di questa tradizione non solo è un erede ma è, come lui stesso si definisce, un “cinefiglio” (in quanto cinefilo), qualcuno che è stato “adottato” dal cinema, riconoscendo a quest’ultimo tutta la sua straordinaria forza simbolica.

Ed è questo cinema che richiama la funzione centrale del critico come traghettatore (“passeur”) tra autore e spettatore, di cui l’opera costituisce il medium. Ciò che è il “mezzo” e sta nel “mezzo”. Senza il tratto “mediano” dell’espressione singolare e finita non passerebbe nulla, non ci sarebbe bisogno di alcun traghettatore, e tutto si smarrirebbe in una fagocitante totalizzazione di discorsi ed immagini.

Questa “avventura del moderno”, nella quale il cinema italiano ha svolto il ruolo capitale di “laboratorio del mondo”, a partire dagli anni Ottanta manifesta segni chiari di esaurimento, per cui non restano che due strade: o uno sguardo “ricostruttivo” sul cinema come patrimonio simbolico, artistico e memoriale da riscattare; o il tentativo di pensare il presente e il futuro delle “nuove immagini” che hanno smarrito ogni dimensione estetica ed etica (come nel caso della pubblicità e della televisione).

Daney percorrerà entrambe le strade, e misurerà l’una a partire dall’altra. La prima, percorsa insieme a un filosofo come Gilles Deleuze (e i suoi due volumi sull’Immagine-movimento e l’Immagine-tempo) e a un regista come Godard (e le sue Histoires), ci dice che il cinema può essere restituito solo con uno “sguardo prospettico”. Con uno stesso gesto, ma secondo prospettive eterogenee, il cinema diventa la grande arte del Novecento, che va redenta attraverso pratiche di montaggio (Godard), pensata attraversa una tassonomia delle immagini (Deleuze), o ricostruita attraverso una pratica critica (Daney). Solo pensando e vedendo ciò che è stato (immagini, forme, discorsi) si può pensare, vedere e scrivere ciò che è e ciò che sarà. Daney lo sintetizza con una frase lapidaria: “Ciò che fa scrivere è ciò che è stato già scritto, ciò che fa amare è ciò che è stato già amato”. Senza tener conto di questo, senza sentir di far parte di una tradizione e di una storia, che è anche storia del desiderio (di autori e di spettatori), non si può realmente immaginare nulla di vivo. E il cinema o resterebbe chiuso in se stesso (in un filmico senza respiro) o sarebbe del tutto liquidato, assorbito in dispositivi di “programmazione” totalizzanti (la gelatina audiovisiva).

Ed è questa la seconda via, che Daney coraggiosamente percorre, passando per la televisione, provando a vedere se qualcosa accadeva e transitava in televisione. Ma l’approdo del percorso è un nulla di fatto: la televisione è il “tecnico-sociale” allo stato puro, nessun supplemento estetico, dunque nessuna critica possibile.

Ma è tutto il destino del cinema che sembra essere cambiato: le illusioni empiriche o dialettiche del montaggio classico, sostituite dallo sguardo “pedagogico” moderno, si sono dissolte nel dominio del visuale, che non prevede inquadrature ma solo immagini (senza punto di vista), e dove queste ultime glissano le une nelle altre, eludendo ogni “registrazione” del reale. Nel trionfo del tecnico-sociale conta solo il consenso, collante gelatinoso della vita sociale nel “villaggio globale”, che necessita di “programmazione” e di “prodotti audiovisivi” e non di film né tantomeno di critici: “Non resta altro che l’orizzonte sociale, quando il mondo è scomparso, ci si trova imprigionati nella mediocrità del villaggio globale. E anche se questo villaggio è ultra comunicante, resta sempre un villaggio. E un villaggio non ha bisogno di critica, ha bisogno di imbonitori”.

Se il cinema è l’“invenzione di ciò che esiste”, davanti a questa invenzione la critica gioca un suo ruolo e un suo spazio. Se invece diventa “spettacolo audiovisivo”, “visuale programmato”, che non lascia intervallo né distanza, allora non esistono più margini per la riflessione critica, tutto diviene un totale dispositivo di circolazione: “Il visuale è ciò che ci viene a dire: circolate, non c’è nulla da vedere”.

Quello che Daney percepiva in un momento chiave della trasformazione delle forme cinematografiche, quando accedevano alla fase “manierista”, dove i formanti erano pubblicità e televisione, si è andato sempre più fortemente radicalizzando negli anni successivi. Per cui il visuale, dove agli “umani non accade nulla, ma accade tutto alle immagini” è diventato per molti versi il concetto-guida degli studi stessi sulle immagini, orientando la costituzione di un intero campo disciplinare, i “Visual Studies”, per i quali l’equivalenza tra l’arte e la pubblicità diventa addirittura il presupposto teorico di istituzione dello stesso ambito disciplinare.

Negli ultimi decenni, la cancellazione della differenza estetica dell’opera, con la conseguente resa irrilevante della critica e l’annullamento di ogni periodizzazione delle forme (vera garante del senso di un’immagine), è stato un vero e proprio progetto estetico-culturale. Che ha visto oltre ai suoi “promautori”, che sono “autori di un ‘concetto’ e hanno i mezzi per promuoverlo”, i suoi maestri di cerimonia (gli imbonitori del circo mediatico), e per ultimo anche i suoi sapienti, che hanno operato una valorizzazione teorico-accademica dei saperi orientati a dare supporto a tale progetto. Sono state le categorie totalizzanti (visualità, medialità) a costituire la cornice che, premiando lo scambio di tutto con tutto, hanno reso sterile ogni discorso sulle forme, sul loro carattere limitato e contingente, e dunque sulla critica. Il dominio delle “categorie cosmiche” è corrisposto al dominio del pensiero neoliberale, in una saldatura politico-estetica, culturale-scientifica, di cui Loro di Sorrentino ne è l’esempio ultimo e più icastico.

Ma anche quando il visuale sembrava escludere la possibilità di spazio al discorso critico, anche in quel momento Daney, chiudendo la sua esperienza di critico televisivo, rilanciava sul cinema, fondando “Trafic”, rivista trimestrale (dunque dai tempi lenti) di scrittura sul cinema e i film, il cui gesto era ed è chiaro. Riconnettere il cinema al mondo, sottraendolo ai dispositivi del consenso o dissenso sociale: è ciò che la critica deve fare, sapendo rispondere ai film che lo richiedono. Cioè ai film che portano inscritto il desiderio di essere tali, dove emerge una necessità di dire che il critico deve saper rilanciare, resistendo a tutta l’indifferente “boutique audiovisiva”, buona solo a restituirci un insieme di sintomi che rimandano al sociale indifferenziato.

E’ quel gesto che va ripreso e rilanciato, perché ora più che mai, con la crisi del neoliberalismo anche culturale ed estetico, il discorso che nasce dall’incontro con la singolarità dell’opera può tornare a giocare un ruolo importante, anche formativo.

Ritorno alla critica, dunque. Perché la critica è ciò che comporta resistenza e creazione, ed è capace di tirar fuori idee universali a partire dal tratto limitato delle forme, e dunque di riconsegnarci il cinema come ricca via d’accesso alla vita, perché “quando si ama la vita si fa la critica cinematografica della vita”.