La poliedrica ed estesa produzione dell’artista, teorico e scrittore Dan Graham lo ha reso un protagonista inclassificabile dell’arte contemporanea. Instancabile sperimentatore, definirlo artista concettuale è riduttivo. Nato ad Illinois nel 1942 (e morto a New York nel 2022), il suo progetto di vita contemplava una trasformazione in scrittore, ma appena arrivato a New York, per una serie di causalità, comincia a occuparsi della programmazione della Daniels Gallery, dove organizza le prime mostre di Sol LeWitt, Dan Flavin, Donald Judd e Robert Smithson. Questo sarà solo l’inizio di un’avventura che lo porterà a realizzare opere e saggi teorici, «dispositivi concettuali» per ragionare criticamente intorno al sistema dell’arte e alle sue possibili fruizioni.
Nel 1964 paga gli spazi pubblicitari di alcune riviste per pubblicare la serie fotografica Homes for America, in cui raccoglie le immagini di case unifamiliari dei sobborghi americani: è un intervento concettuale, presentato in un contesto pop, ideato per raggiungere un pubblico maggiore rispetto a quello degli addetti ai lavori e trasgredire così l’aura e il valore simbolico dell’opera d’arte. Anche in Rock My Religion, video girato nel 1984, Graham mette in relazione le pratiche rituali dei nativi americani, puritani e shaker, con le sonorità della musica rock. Il rock diviene religione in quanto esperienza comunitaria, che trasforma le forme devozionali tradizionali in una fisicità sessualizzata. La musica, d’altronde, è stata una sua grande passione, così come la dimensione sensoriale dell’architettura.

Installation views, «Not Post-Modernism. Dan Graham and 20th-Century Architecture», Fundação de Serralves, Porto. Foto di Filipe Braga

NELLE PERFORMANCE si è servito spesso di specchi e telecamere a circuito chiuso per includere il fruitore nell’opera, come accade anche nei padiglioni in ferro e vetro riflettente che realizza dagli anni Ottanta. I padiglioni sono oggetti scultorei e strutture architettoniche percorribili che permettono di interagire con l’ambiente circostante, creando uno smarrimento percettivo per il labile confine tra esterno e interno. Sono le sue opere più celebrate, installate in musei e spazi espositivi, in contesti urbani o all’aperto. Uno di queste è installata nel parco del museo Serralves di Porto, che ospita la mostra Not Post Modernism. Dan Graham and 20th Century Architecture, ideata dall’artista stesso prima della sua scomparsa avvenuta nel 2022, insieme a Bartomeu Mari.
Come ci relazioniamo con lo spazio? Quanto e come siamo condizionati dagli ambienti? Quale è il confine tra la percezione di spazio interno ed esterno? Queste sono alcune delle domande su cui Graham si è interrogato nel corso della sua poliedrica carriera, creando dispositivi percettivi che interrogano le modalità con cui l’individuo si relaziona con l’ambiente.

LA RASSEGNA, visitabile fino al 31 marzo, raccoglie i progetti di architetti e architette di diverse generazioni, provenienti da una molteplicità di contesti geografici, che hanno suggerito all’autore idee e analisi sulla percezione spaziale.
Nonostante le diverse istanze progettuali, Graham aveva identificato aspetti e pratiche comuni in quello che lui identificava come «spazio critico», nei progetti di Jan Duiker, Lina Bo Bardi, Atelier Bow Wow, Sverre Fehn, Itsuko Hasegawa, Anne Tyng, João Batista Vilanova Artigas e Kazuo Shinohara
«La mostra può essere vissuta come un omaggio alle riflessioni teoriche di un grande artista e come un saggio visivo sull’architettura del XX secolo», afferma Bartomeu Mari. E aggiunge: «Grazie alle tante conversazioni con Graham e alla cura dell’archivio della moglie Mieko Meguro ho potuto continuare a lavorare al progetto, che presenta e raccoglie il lavoro di architetti che lo hanno accompagnato nel corso della sua lunga carriera. Con Graham avevamo deciso di selezionare due edifici iconici di otto architetti, di ognuno di loro aveva scelto di presentare documentazioni fotografiche, disegni e schizzi fatti a mano e maquette, senza ricorrere mai a rendering digitali».

GRAHAM AVEVA incontrato Itsuko Hasegawa, di cui apprezzava la volontà di ideare strutture architettoniche non invasive. L’Yamanashi Fruit Museum, da lei progettato nel 1992, è una cupola simile a un frutto posto sul pendio di un vigneto, suddivisa in serre e spazi espositivi che si fondono con il paesaggio.
Dell’architetto norvegese Sverre Fehn, autore del padiglione dei Paesi scandinavi nei Giardini della Biennale di Venezia, aveva selezionato il Museo delle incisioni rupestri, progettato nel 1993 ma mai realizzato. I disegni incisi sulla superficie del granito rappresentano figure senza orizzonte, alla deriva nello spazio, in cui i concetti di lontananza e vicinanza erano del tutto assenti. Per questo motivo Fehn aveva progettato un museo in cui le incisioni rupestri fossero parte della struttura architettonica, in modo tale da permettere alla struttura stessa di diventare estensione del paesaggio.

ALTRETTANTO ATTENTA ad abbattere i confini tra spazi visivi e percettivi è stata Lina Bo Bardi nell’ideazione del Teatro Oficina di São Paulo. Aveva progettato una grande scatola scenica composta da un vasto palcoscenico in cui attori, spettatori e tecnici sono a diretto contatto. Al lato del palcoscenico vi è una balconata di impalcature di tubi innocenti che permette alla luce di entrare grazie un’ampia parete di vetro laterale e allo spettatore di vedere quello che accade in strada. La passerella del palcoscenico era stata immaginata per collegare due importanti arterie del quartiere Bixiga, tra i quartieri più antichi della città di San Paolo, in cui si trova il teatro ma non si è stato possibile.
È quell’«ecologia del sostentamento» come Atelier Bow-Wow definisce la propria pratica progettuale ad aver appassionato Graham. Aveva selezionato due loro progetti, Pony Garden a Kanagawa e Momonoura Village a Tohoku. Quest’ultimo è un piccolo villaggio di pescatori, distrutto dallo tsunami, che è stato progettato nel 2017 insieme agli abitanti del luogo. In un sito ai piedi di una montagna che non era utilizzato, sono stati realizzati un gruppo di edifici, tra cui una scuola e un centro civico, in cui si scambiano conoscenze e saperi e dove l’elaborazione architettonica è parte di un processo di rigenerazione che si attua attraverso l’apprendimento dei bisogni e della storia locale.

A ATELIER BOW-WOW è stato affidato l’allestimento della mostra, considerando la stima che Graham nutriva nei loro confronti. Sono stati impiegati materiali disponibili a Porto, paglia, sughero e mattone che saranno riutilizzati al termine della mostra. E dopo aver attraversato territori e architetture paradigmatiche come quelle di Anne Tyng, che Buckminster Fuller aveva definito «la mente geometrica dei progetti di Louis Kahn», vista l’importanza di Tyng nelle costruzioni di Kahn, e di João Batista Vilanova Artigas, tra i fondatori della Scuola Paulista di architettura, che aveva cercato di stabilire una problematica coerenza tra impegno civile e attività professionale, nell’ultima parte della mostra sono esposti disegni, schizzi e sculture di Graham.
L’ottimo catalogo permette di approfondire le scelte e l’analisi dell’artista, grazie alla pubblicazione di molti dei suoi scritti che restituiscono la profondità di analisi del suo pensiero critico.