Quando era poco più di un bambino, Damien Hirst aveva una ossessione: sottrarre al cannibalismo del tempo gli oggetti in cui si imbatteva. «Qualsiasi collezione – dirà poi una volta adulto – è la mappa esistenziale di una persona». Da piccolo, classificava minerali e fossili ordinandoli in scatole con certosina pazienza e candidamente immaginando un possibile dominio sull’anarchia della natura. Fino al giorno in cui, a metà degli anni ’80, un introverso vicino di casa morì. Era mister Barnes che, compulsivamente e per sessant’anni, aveva accumulato ammassi di reperti dentro casa. Hirst ne prelevò alcuni per riconvertirli nelle sue opere.

LA SUA SMANIA da «collector» si riversò poi sui manuali di patologia: antiche tavole anatomiche si disseminarono per ogni stanza, insieme agli animali imbalsamati, soprattutto quelli con malformazioni. Erano la visibile sconfitta della tracotanza del controllo cui anelava l’epoca vittoriana. Nacque così – su un alternarsi tragico di vita e morte, di caducità macabra e leggerezza matafisica – l’infinito archivio del memento mori e della vanitas che caratterizza tutta la produzione di Damien Hirst (Bristol, 1965). Lo stesso che, in fondo, rintracciamo sottotesto nell’ultima titanica impresa di questo artista, sconvolgente manager di se stesso (come e più di Warhol).
Da vent’anni, infatti, Damien Hirst prova a catalogare la storia umana, miti compresi, a partire da una sua ricostruzione kolossal, tutta di finzione, che prende l’avvio da un naufragio e poi dal conseguente ricco ritrovamento di Treasures from Wreck of the Unbelievable. A Venezia, nel 2017, tra Palazzo Grassi e Punta della Dogana erano emerse statue grandiose incrostate di coralli e conchiglie: quei tesori recuperati, che beffardamente non si curavano dell’aspetto kitsch, mescolavano tutte le culture conosciute e facevano parte – nel romanzo cosmologico a più capitoli creato dall’artista, proprio di una collezione: quella del liberto Aulus Calidius Amotan, che – seguendo la fake news – trasportava i suoi beni per adornare un tempio dedicato al dio Sole in oriente.

OTTANTA OPERE di quel fantasmagorico carico navale (in bronzo, marmi pregiati, ori, argenti, coralli e pietre dure) sono arrivate alla Galleria Borghese per tessere una scacchiera di rimandi – ancora una volta – con una collezione (d’altronde, il nucleo fondativo del museo è nella passione accumulatoria del cardinale Scipione). Il risultato è Archeology Now, mostra lussuosa e lussureggiante approdata nella «camera delle meraviglie» di Raffaello, Tiziano, Caravaggio, Bernini. Se Hirst aspira a un cabinet de curiosité dal sapore universale, a una stupefazione atemporale, qui c’è la rincorsa di un allucinatorio mondo che spezza la linea cronologica, invitando epoche diverse al medesimo banchetto dello sguardo.
La raccolta «aliena», nutrita di presenze straniere infarcite di citazioni, può contare su seducenti donne arciere in bronzo levigato che scoccano frecce al cielo, regine delle Piramidi, la dea Kali, tori leggendari, metamorfosi inattese, maschere rituali asiatiche. Ci sono anche schiavi in catene afroamericani che, con la loro posizione estatica di fuoriuscita da sé, invertono i Prigioni di Michelangelo e, senza gerarchie culturali, Topolino ricoperto di sedimenti marini. È questo il corredo ipnotico e barocco dello spettacolo illusorio che Anna Coliva e Mario Codognato (curatori della mostra visitabile fino al 7 novembre) accolgono nel tempio del Rinascimento e del Seicento. E in scena va il teatrale inganno che anestetizza l’idea stessa di capolavoro.

I DETRATTORI DI HIRST – che certo non a tutti ispira simpatia a causa di quel suo sfoggiare budget sovrumani, qui c’è anche il supporto Prada – lo inchioderanno alla sua stucchevolezza, a una hybris artistica che passa dagli squali in formaldeide ai teschi tempestati di diamanti fino agli spot caleidoscopici (forse fra gli accostamenti più riusciti dell’esposizione c’è proprio quello con l’Amor sacro e l’Amor profano di Tiziano e un suo ormai classicissimo quadro a pallini). Ma il curatore Mario Codognato assicura che lo scarto dell’operazione di Hirst evita la ridondanza dell’iperbole. «A Venezia si era concentrato sulla narrativa del ritrovamento del vascello. Qui emerge uno studio profondo sui materiali e l’ambiguità, insita nel nostro tempo, fra manifattura artistica, aspetto concettuale e sua storicizzazione».