I luoghi comuni della storia del cinema si insinuano in modo così deciso nella nostra mente, che spesso si finisce per vedere i film come ci sono stati raccontati, invece di vederli con i nostri occhi.

Chi nota infatti che Roma città aperta ha tra i protagonisti una vedova di guerra, incinta di un altro uomo, e una ragazza che per la droga e il lusso accetta l’amore lesbico di una nazista?

Eppure è a partire da questi personaggi che a New York il film è stato proposto anche in cinema «a luci rosse», oltre che nelle sale d’essai (art houses), dove ha riscosso un successo che da lì si è esteso in tutto il mondo. Il racconto C’era una volta in America Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000  scritto da Damiano Garofalo (Rubbettino, pp. 246, € 18,00) racconta «dettagli» come questi che rendono evidente come la storia di un cinema nazionale non sta mai chiusa dalle frontiere paese, ma si sviluppi a contatto con altri pubblici e altre pratiche industriali.

Il cinema italiano del secondo dopoguerra si afferma in America per il suo realismo, perché è anti-hollywoodiano nei suoi esterni girati per le strade e con interpreti che non sono divi, con una Magnani scarmigliata e senza trucco; si dice che il cinema neorealista fosse improvvisato sul set (cosa del tutto falsa: disponeva dei migliori sceneggiatori) o, in seguito, «sognato» dal Maestro Fellini, con il fascino artistico della firma autoriale. Una cosa «tecnica» e «americana» come la sceneggiatura, veniva negata per affermare la sua diversità e novità.

Quello italiano è in effetti il cinema nazionale che ha ricevuto più Oscar, a partire proprio dalla prima statuetta assegnata a un film straniero, pensata come Oscar «onorario» per Sciuscià, nel 1948. I film di Rossellini e De Sica conquistano dunque la critica e un pubblico che si va ampliando quando i suoi distributori, i sagaci Joseph Burtsyn e Arthur Mayer, cominciano a portarlo anche nelle sale di prima visione, scavalcando la censura, che nel caso di Ladri di biciclette, taglia il passaggio dentro il bordello e la scena del ragazzino che fa pipì sul muro… Ma è Riso amaro, con l’immagine del poster promozionale con la procace Silvana Mangano in calzoncini corti e seno prorompente sotto la maglietta attillata, che, pur non godendo del favore della critica, fa incassi favolosi e avvicina il grande pubblico americano al cinema neorealista.

Fellini riceve l’Oscar per La strada, che ha ancora il sapore del neorealismo ma introduce la nota autoriale e poi piovono Oscar (Le notti di Cabiria, 8 e ½, Amarcord) e nel 1993 un Oscar alla carriera, mentre Visconti non è apprezzato (e conosciuto) e L’Avventura di Antonioni divide la critica.

Ma a questo proposito vale la pena di leggere con Garofalo dei brani di un articolo del New Yorker firmato nel 1961 da Mike Nichols rispetto a «una nuova ondata di film in arrivo dall’Italia» per i quali propone delle sinossi inventate ma plausibili. In The Occurrance (che fa il verso all’Avventura di Antonioni) «Giovanna ha perso il suo ditale. Per le prime due ore e tre quarti lei e i suoi amici lo cercano. Negli ultimi dieci minuti la ragazza viene stuprata e ci rimane un senso di smarrimento».

Stessa sorte tocca alla protagonista di Carlo and His Brothers, ovvero il viscontiano Rocco e i suoi fratelli, che viene molestata dai suoi dieci fratelli lasciandoci «un senso di smarrimento». La parodia della Ciociara diventa Mother and Daughter, «ventisettesimo film sull’Italia devastata dalla guerra, girato dall’amaro e affermato regista Carissimo De Vita» dove le due donne percorrono a piedi tutta l’Italia durante la Seconda guerra mondiale, per poi sopravvivere a un bombardamento americano della città di Torino ed essere anche loro stuprate dall’esercito, «lasciandoci un senso di smarrimento».

Il cabarettista Nichols, che allora si esibiva in coppia con la futura sceneggiatrice Elaine May, cinque anni dopo, convertitosi al culto del cinema italiano, dirige Chi ha paura di Virginia Woolf e nel 1967 Il laureato. Si dice che prima di girare questo film abbia rivisto per la decima volta 8 e ½, per trovare il tono giusto per questa «commedia alla Preston Sturges con il ritmo di un film di Antonioni».

Queste citazioni confermano il ruolo del cinema italiano nel formarsi del gusto cinefilo ed esterofilo che produce poi la Nuova Hollywood, ma permettono anche di rilevare come Nichols sia sconcertato, «smarrito» davanti all’elemento forte dello stupro e ricordare come la scena delle torture di Roma città aperta sia stata tagliata negli Stati Uniti: davanti agli ideali che il film esprime ci si dimentica di quanta sofferenza e violenza mostra, ma il pubblico americano, ancora immerso in un cinema che doveva essere «per tutti», davanti alle sue storie ha «un senso di smarrimento», uno shock culturale.

La nuova Hollywood ha diversi debiti con il nostro cinema, a partire da Easy Rider che è ispirato a Il sorpasso (pensate alla trama) che in Usa era stato distribuito con il titolo Easy Life, e poi senza Per un pugno di dollari (1964) potrebbe esistere Il mucchio selvaggio di Peckinpah (1969)?
Ma bisogna leggere il libro di Garofalo per conoscere la «storia vera» del cinema italiano e capire perché le cose oggi non stanno più così, senza continuare, nel nostro provincialismo, ad autodenigrarci.