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Giovedì notte i cacciabombardieri israeliani hanno seguito una rotta lungo la costa libanese. Poi, all’altezza di Tripoli, hanno virato a destra violando lo spazio aereo del paese dei cedri e giunti sulla regione di Akkar hanno sganciato missili verso Hama, in Siria. Quattro civili, tra cui due bambini, sono stati uccisi riferiva ieri l’agenzia siriana Sana mostrando le foto della casa distrutta. Israele non conferma e non smentisce. I suoi media scrivevano ieri di cinque postazioni militari iraniane colpite nella regione a ovest di Hama già bombardata in precedenza. Si è trattato del terzo attacco aereo nell’ultimo mese – il penultimo, qualche giorno fa, al confine tra Siria e Iraq, avrebbe fatto decine di vittime – e il primo dell’era di Joe Biden.

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Quali saranno i riflessi sulla Siria del cambio della guardia alla Casa Bianca è uno degli interrogativi che sorgono a proposito della politica che la nuova Amministrazione Usa adotterà in Medio oriente. Donald Trump negli ultimi quattro anni ha fatto di volta in volta gli interessi dei suoi alleati ma con il suo stile a dir poco caotico. Ha provato a favorire come il suo predecessore Barak Obama la disintegrazione della Siria e appoggiato militarmente le rivendicazioni dei curdi per poi tradirle clamorosamente a beneficio della Turchia quando è crollato lo Stato islamico. Ha annunciato il ritiro delle truppe Usa in Siria ma non lo ha mai completato. Ha bombardato (assieme agli europei) Damasco e altre città siriane per «punire i crimini del regime» ma non ha dato il via alla guerra che invocano gli alleati arabi, sauditi in testa, per rovesciare il presidente Bashar Assad alleato dell’Iran. Ha mal digerito gli esiti dell’intervento militare di Vladimir Putin a favore di Damasco ma non ha affrontato a muso duro la Russia. Solo con Israele è stato di una coerenza cristallina: ha proclamato a nome degli Stati uniti il Golan siriano occupato parte dello Stato ebraico e ha avallato i raid aerei israeliani. L’anno scorso infine Trump ha adottato il Caesar Act, un duro regime di sanzioni che colpiscono soprattutto la popolazione civile siriana e di riflesso anche il confinante Libano.

Joe Biden cambierà registro? In Siria nessuno se lo aspetta. Anzi si prevede che la nuova Amministrazione, che include sostenitori storici del pugno di ferro contro Assad, tra i quali il segretario di Stato Tony Blinken, rincari la dose e metta ancora di più sotto pressione Damasco. Washington, si ipotizza, potrebbe offrire al fronte israelo-arabo – consolidato dal recente Accordo di Abramo tra lo Stato ebraico e quattro paesi arabi – un ulteriore inasprimento delle politiche contro la Siria e la testa di Assad come contropartita a un eventuale, e al momento improbabile, rilancio del dialogo Usa-Iran sulle intese del 2015, cestinate da Trump nel 2018, relative al programma di produzione di energia nucleare di Tehran.

Ciò mentre le condizioni di vita in Siria sono in costante peggioramento ed il governo non appare in grado di fronteggiare l’emergenza Covid. A Joe Biden si sono rivolti due giorni fa, con una lettera, i capi delle chiese cristiane siriane affinché cancelli le sanzioni economiche e non sia causa della «catastrofe umanitaria». La lettera cita il lavoro di Alena Douhan, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla questione delle sanzioni unilaterali, che alla fine di dicembre aveva richiamato l’urgenza di rimuovere il Caesar Act che blocca gli investimenti necessari per far funzionare il sistema sanitario siriano durante la pandemia. «I fornitori di aiuti umanitari – ha spiegato Douhan in una intervista – sono obbligati a ottenere la licenza dai paesi sanzionatori…Quando cercano di fornire attrezzature mediche devono dimostrare un vero obiettivo umanitario per la consegna. Anche se parliamo dei tamponi per il Covid, degli scanner per le tac e di qualsiasi tipo di medicinale».