Con le presidenziali statunitensi nello specchietto retrovisore e con il parabrezza che già inquadra con timore la futura Amministrazione Biden, le autorità siriane hanno chiuso ieri la conferenza di due giorni a Damasco, voluta dalla Russia, sul rientro in patria di milioni di profughi fuggiti a causa delle violenze scoppiate nel paese dieci anni fa. In realtà è durata solo un giorno perché ieri le delegazioni hanno trascorso gran parte del tempo in visita a un campo per sfollati a ridosso della capitale. Fino a ieri sera non si sapeva di alcun comunicato finale o di decisioni prese dai partecipanti, in pratica solo i paesi alleati del governo siriano – Russia, Iran, Cina – e alcuni di quelli che hanno riallacciato i rapporti con Damasco. Presente anche il Pakistan mentre l’Onu è stato di fatto invisibile e ha mandato solo qualche «osservatore». Assenti gli avversari dichiarati della Siria: Stati uniti e Unione europea.

 

Vladimir Putin è stato coinvolto in prima persona nella conferenza sui profughi siriani. Il 9 novembre, in una videoconferenza con il presidente Bashar Assad, il leader russo ha spiegato che la guerra in Siria è terminata e che pertanto non ci sono più ostacoli al rientro dei profughi – quasi sei milioni sparsi tra Libano, Turchia, Giordania e in misura minore in altri paesi – e al ritorno alle loro città e villaggi di quattro milioni di sfollati interni, anche se molti di questi una casa non ce l’hanno più a causa di bombardamenti e combattimenti.

 

Per i nemici di Assad invece il rientro dei profughi è «prematuro». L’Unione europea, ad esempio, ha scritto in un  comunicato che la priorità è «creare le condizioni per un ritorno sicuro, volontario, dignitoso e sostenibile dei rifugiati e degli sfollati interni alle loro aree di origine, in linea con il diritto internazionale e i parametri di protezione per il ritorno dei rifugiati in Siria». Bruxelles parla di arruolamento militare forzato, di arresti indiscriminati, di rapimenti, torture. Più di tutto insiste sull’attuazione della risoluzione Onu 2254 (del 2015) – promossa a suo tempo dai paesi occidentali – che chiede di affrontare le «cause» alla base del conflitto e della crisi dei rifugiati e degli sfollati interni. Perciò il nodo vero è la politica, non il rispetto e la protezione dei profughi. Stati uniti e Ue non intendono riconoscere che Bashar Assad, grazie anche all’aiuto di Mosca, abbia vinto la guerra contro i suoi nemici interni ed esterni. Per Washington e Bruxelles la «causa» della guerra sarebbero Assad, il suo pugno di ferro nel paese e la sua alleanza con l’Iran e non il sostegno finanziario e militare offerto da vari paesi, soprattutto arabi, a movimenti e gruppi jihadisti armati che compongono buona parte dell’opposizione a Damasco. Pertanto non permetteranno la ricostruzione della Siria, il rientro dei profughi in patria e continueranno ad attuare sanzioni contro Damasco, sino a quando Assad sarà al potere e la Siria non muterà la sua collocazione regionale prendendo le distanze da Tehran.

 

Damasco comunque sui profughi ha assecondato senza troppa convinzione la Russia. Assad nella videoconferenza con Putin più che dei rifugiati ha parlato della situazione difficile in Siria, a causa anche del Caesar Act, le sanzioni approvate dagli Usa nei mesi scorsi.  La crisi, aggravata dal coronavirus, colpisce ormai quasi tutta la popolazione. Scarseggia il pane a prezzo calmierato dallo Stato, così come la benzina e la lira siriana perde continuamente valore rispetto al dollaro. E i jihadisti dell’Isis colpiscono di nuovo in modo sanguinoso. Nell’ultimo attacco compiuto nei pressi di Hama hanno ucciso 15 militari.