L’attentato contro il primo ministro Wael al Halqi ieri è avvenuto mentre tra soldati governativi e ribelli si combattevano vicino all’aeroporto internazionale di Damasco, a 27 chilometri a sudest della capitale. Un’autobomba esplosa al passaggio del convoglio su cui viaggiava al Halqi, nel centralissimo quartiere Mazzeh. Una delle guardie del corpo del premier è rimasta uccisa insieme ad altre cinque persone, tutte civili secondo la televisione di stato. La deflagrazione è stata potente ma ha solo sfiorato l’auto di al Halqi che è rimasto illeso. Era dallo scorso luglio, quando una forse due bombe decapitarono i servizi di sicurezza e della difesa, che i ribelli non puntavano tanto in alto. In quell’occasione, forse con l’aiuto di agenti qualche servizio segreto straniero, l’opposizione armata provò a dare una spallata al regime, lanciando dopo l’attentato un’offensiva alla periferia di Damasco che, però, fu respinta dalle unità scelte comandate da Maher Assad, fratello del presidente Bashar Assad.

L’eliminazione ieri del premier, nei piani degli attentatori, doveva essere un duro colpo per Damasco. Al Halqi guida il governo dallo scorso agosto, quando prese il posto di Riad Hijab fuggito in Giordania per unirsi alle opposizioni. In quel momento il regime veniva dato sul punto di crollare, con diversi esponenti politici e ufficiali delle Forze Armate che abbandonavano Assad per rifugiarsi all’estero. E invece a distanza di dieci mesi il governo è rimasto al suo posto e così l’Esercito, impegnato peraltro in questi giorni in una offensiva volta a recuperare i territori al confine con Libano e Giordania e il controllo delle principali arterie stradali. Il regime gode sempre del consenso di una porzione ampia di popolazione, quella che teme il dopo-Assad con la certa l’ascesa al potere delle stesse forze islamiste sunnite che oggi controllano l’Egitto e la Tunisia. L’opposizione laica e progressista, quella rappresentata dissidenti storici come Michel Kilo e Walid Bunni, hanno ormai un ruolo marginale. In politica dominano i Fratelli Musulmani sostenuti dal Qatar, sul campo di battaglia i jihadisti alleati di al Qaeda.

Intanto la Russia, che appoggia Damasco in sede internazionale, definisce la ricerca di armi di distruzione di massa in Siria un pretesto per cacciare Assad, come avvenne in Iraq con Saddam Hussein. Il ministro degli esteri Sergei Lavrov ha criticato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon che ha lanciato un appello a una missione di verifica in Siria dopo le accuse rivolte al regime, non dimostrate, di aver utilizzato armi di distruzione di massa a dicembre. «Ci sono governi e attori esteri che ritengono che tutti i mezzi siano adeguati per rovesciare il regime siriano. Ma il tema delle armi di distruzione di massa è troppo serio, non bisognerebbe scherzarci sopra», ha avvertito Lavrov.