Equilibrio, equità, sostenibilità, giustizia: sono parole che si rincorrono e che rincorro da tempo. Ma che trovano una sintesi alta, un denominatore comune elevato per così dire, nel diritto al cibo. Da una parte dobbiamo uscire dal circolo lineare – pensa che incredibile ossimoro – tipicamente occidentale crescita-consumo-debito e modificare il progresso che ci ha portato fin qui. Dall’altra dobbiamo uscire dalla trappola dell’indignazione indifferente e frammentata. Dobbiamo arrivare a una società che si fondi sul principio di reciprocità, sulla gratuità, sulla riscoperta del dono, sul valore di relazione che deve essere più grande, più importante degli altri valori di uso e di scambio delle merci (fondamenti del mercato e del capitalismo), merci che devono tornare ad essere beni a lunga durata. Una società che limiti l’uso delle risorse, il dare per avere (egoismo, individualismo, edonismo) e il dare per dovere (assistenzialismo, carità pelosa). Una società che si fondi sull’essenzialità nell’essere e nell’avere e sulla generosità nel dare e nel darsi (relazione, condivisione, convivialità).

ANCHE L’AGRICOLTURA DIVENTA uno straordinario «caso» per capire la potenzialità di una visione che pone l’aggettivo «civico» – cioè proprio dei cittadini in quanto appartenenti ad uno Stato e relativo alla cittadinanza – al centro del nuovo mondo. Proprio l’agricoltura civica fa perno su un sistema di produzione declinato su piccola scala che prende in considerazione le risorse naturali della comunità locale. Lontana da logiche di produzione su vasta scala, quest’agricoltura rilancia semplicemente ma concretamente l’idea della produzione locale con attenzione al ben-essere e al ben-avere di ogni singolo individuo.

SE L’ECONOMIA DI MERCATO MIRA al raggiungimento del bene totale, l’economia civica punta al bene comune. La cittadinanza ha dell’uomo un’idea molto elevata: chiede agli uomini di saper governare se stessi, sottraendosi a due opposte derive: il totalitarismo, che fa degli uomini dei sudditi, e il mercato che fa degli uomini dei clienti. Lo diceva Pier Paolo Pasolini tanto tempo fa ormai: «Il potere ipermoderno non ha bisogno di sudditi ma di liberi consumatori!». A queste due forme di etero-direzione la cittadinanza contrappone la via di una comunità costruita a partire dalla libertà, un equilibrio delicato e prezioso fra diritti e doveri, attenzione e passione, emozione e progetti, ambizioni private e pubbliche virtù: l’Homo civicus, il cittadino attivo. L’attualità, anzi l’urgenza di intervenire per dare risposte concrete risiede proprio nella drammatica crisi alimentare mondiale che stiamo vivendo, risultato di una tempesta che negli anni – come dimostra anche quanto ho scritto – è diventata perfetta. Abbiamo fatto troppo poco per rimediare. Se è vero che le crisi sono sempre buone occasioni per cambiare qualcosa, allora abbiamo bisogno più che mai di un atto forte, definitivo dal quale ripartire.

RICONOSCERE LA CITTADINANZA alimentare, lo ius cibi: il diritto a un’alimentazione adeguata, sufficiente, sana, sostenibile, culturalmente accettabile – e potrei andare avanti a lungo con le aggettivazioni o riprendere letteralmente la definizione onusiana. Il concetto di cittadinanza sta dentro e fuori dal cibo, riflette la nostra comunità e il mangiare, oltre a soddisfare un bisogno primario e fondamentale, è un atto a impatto multiplo: politico, economico, sociale, ambientale, nutrizionale, salutare… Dunque come fare praticamente?

COMINCIAMO DAGLI STATUTI DEI NOSTRI Comuni, che sono le nostre comunità e rappresentano i nostri bisogni, e chiediamo che venga inserito e riconosciuto lo ius cibi. Partiamo dal basso facendo partecipare i cittadini a iniziative e progetti, li chiamerei «tavoli», che rendano possibile un’alimentazione sana e sostenibile per tutti: dal contrasto allo spreco alimentare (un dovere) all’adozione di diete adatte a diverse esigenze (un diritto). In mezzo, come strumenti, troviamo i programmi di educazione alimentare a partire dai più piccoli e dalle loro famiglie, pensando di utilizzare la mensa scolastica come «palestra» alimentare; lo sviluppo di filiere alimentari più corte e biodiverse; la realizzazione di forme distributive che leghino gli agricoltori ai consumatori, senza per questo disconoscere altre filiere o distribuzioni più lunghe – ma sapendole riconoscere in modo da contrastare ogni forma di speculazione, concorrenza sleale e sfruttamento, distinguere il sovranismo dalla sovranità alimentare, l’autarchia dallo scambio fra comunità, il chiudersi in se stessi o l’aprirsi agli altri, alle diversità anche alimentari.

ED E’ PROPRIO NEI COMUNI CHE IL CIBO può essere riconosciuto davvero come un bene comune, e talvolta anche «in comune» se pensiamo alla redistribuzione delle eccedenze attraverso il dono ai poveri alimentari. Ma attenzione che poi questa azione, meritevole e caritativa, non diventi la scusa per continuare a sprecare: tanto ci sono i poveri alimentari da sfamare. Se poi queste politiche funzionano nelle nostre comunità e città le estenderemo, con gli adattamenti che saranno necessari, ad altre città, ai territori, ai paesi, ai continenti.

IL SENSO E’: PENSIAMO, PROGETTIAMO e realizziamo a livello locale; se funziona agiamo a livello globale. La diversità è una ricchezza, l’esperienza di una comunità opportunamente modificata servirà ad altre che si trovano ad affrontare lo stesso problema. Questo approccio è esattamente il contrario del calare dall’alto modelli buoni per tutti e che poi non funzionano da nessuna parte.