Ci sono diversi modi per affrontare la ricorrenza dell’8 settembre 1943. Ancora di più del 25 luglio, all’atto della caduta del regime fascista, esso costituì infatti l’evento spartiacque nella storia del nostro Paese. Poiché segnò la conclusione di una lunghissima fase, avviatasi quanto meno con il primo dopoguerra. Un arco di tempo, per capirci, che può essere compreso tra la fine del 1918 (all’avvio della smobilitazione progressiva delle truppe) e, per l’appunto, la tarda estate del 1943.

Più che di linearità è tuttavia meglio parlare di consequenzialità: la catastrofe dell’8 settembre è, infatti, il risultato del cumularsi di una serie di nodi e di contraddizioni che erano intrinseci non solo al fascismo-regime ma anche alle istituzioni pubbliche in quanto tali. Così facendo, si ragiona non solo sulla progressiva affermazione, sulla sovrapposizione e la successiva sostituzione degli ordinamenti fascisti a quelli liberali ma anche nel merito delle dinamiche che caratterizzarono l’evoluzione delle forze armate, la loro maggiore o minore politicizzazione rispetto al regime, la progressiva assunzione, da parte di quest’ultimo, di una logica imperialista nonché la tragica inadeguatezza del Paese rispetto allo scenario bellico che andò configurandosi già con la guerra di Spagna e le imprese coloniali italiane degli anni Trenta. Inadeguatezza legata al fatto che le logiche con le quali l’Italia di Mussolini andava affrontando il rapido mutamento e deterioramento dello scenario internazionale, erano debitrici di una crescente sudditanza di Roma da Berlino che nessun accordo politico e strategico, come avvenne con le intese che dal 1936 furono sottoscritte, avrebbe comunque potuto sanare. Le periodizzazioni sono, molto spesso, discutibili.

TRACCIARE UNA LINEA di demarcazione tra un prima e un poi è, spesso, fatto tanto soggettivo quanto arbitrario, Tuttavia, richiamarsi a elementi di continuità, nel tempo così come anche di eventuale discontinuità, ha una sua ragione d’essere. In questo caso ancor più dinanzi alla rinnovata enfasi con la quale, non solo nel discorso di senso comune, ritornano periodicamente in circolo le tesi già espresse da Ernesto Galli Della Loggia nel suo La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica (Laterza, prima edizione, 1996).

Che cosa queste contengano è risaputo: l’8 settembre, nel suo essere una soglia fatale, una frattura insanabile, avrebbe in realtà rivelato qualcosa di intrinsecamente soggiacente alla stessa antropologia sociale e civile dell’Italia unita, ovvero la sua mancanza di ethos patriottico. Più che un discorso sul nazionalismo quella dell’autore è una sorta di lamentazione critica sulla mancanza di senso di reciprocità civica, trasfuso in pessimismo politico che poco meno di trent’anni fa, quando il volume uscì, riscuotendo una larga eco, legittimava il trapasso populistico che nel mentre si stava consumando, con la definitiva cessazione di ciò che era residuato, fino ad allora, dell’«arco costituzionale».

IL RISCHIO di un tale approccio, al netto della nobilitazione intellettuale di tutta una serie di luoghi comuni sulla strutturale debolezza dello «spirito nazionale», è quello di assolvere (o comunque di attenuare) le responsabilità che vanno invece attribuite alle élite dirigenti, alle istituzioni regie, alle amministrazioni pubbliche e alla stessa residuale struttura dell’oramai decaduto regime fascista. Il tentennante e anodino «proclama Badoglio», letto alla radio nel tardo pomeriggio dell’8 settembre, dopo un temporeggiamento che già da sé testimonia della sostanziale slealtà dei gruppi di potere, costituiva una dichiarazione forzata con la quale il Paese veniva deliberatamente consegnato a sé, e quindi al caos. La confusione, l’approssimazione, il trambusto furono peraltro una comoda cortina fumogena dietro la quale la casa regnante cercò di salvarsi.

CONSEGNANDOSI agli Alleati nella convinzione, per nulla infondata, che una volta esauritasi l’occupazione tedesca, sarebbe stata essa stessa ad essere chiamata in causa nel gestire la transizione postbellica. L’illusione, ripetutasi dopo il 25 luglio, che ciò comportasse la cessazione delle ostilità – quanto la popolazione, in grandissima maggioranza, andava quasi miracolosamente attendendo – fu immediatamente infranta dalla prevedibile reazione dei contendenti in campo.

Un volume che conferma ad oggi la sua capacità descrittiva è quello di Marco Patricelli, Settembre 1943. I giorni della vergogna (Laterza, 2009), senz’altro da recuperare alla lettura. L’Italia si trasformò da subito in un campo di battaglia dal fronte mobile. Per i tedeschi era fondamentale ritardare il più possibile l’avanzata alleata, che avrebbe altrimenti minacciato i confini meridionali del Reich. Per gli angloamericani si trattava, invece, di impegnare il maggior numero di truppe nemiche possibili, in uno scenario di guerra ritenuto comunque secondario, testando le capacità offensive delle proprie, parimenti con un occhio di riguardo all’evoluzione politico-militare nei Balcani.

IL TRATTO COMUNE, tra i territori divisi, era l’esistenza di due governi subalterni, con al nord la farsesca e tragica Repubblica sociale italiana, fantoccio in mano ai nazisti, e nel meridione un «Regno del Sud» vincolato al governo militare alleato dei territori occupati (Amgot). Il collasso fu non solo sociale e civile (ampiamente prevedibile dinanzi al drastico incalzare degli eventi) ma soprattutto politico e istituzionale.

Fu paradossalmente questo, tuttavia, il varco attraverso il quale l’antifascismo, altrimenti ancora allo stato embrionale, avviò una repentina ricostruzione di sé stesso, transitando da mera manifestazione di un catacombale e minoritario dissenso alla progressiva assunzione di responsabilità crescenti, arrivando nella primavera del 1945 a costituire un composito blocco di forze politiche in grado di inserirsi dentro le dinamiche dell’iniziale occupazione alleata e poi della prima ricostruzione. Un salto di qualità deciso per un Paese che arrivava da vent’anni di spoliticizzazione fascista e, ancor prima, dall’oligarchismo del notabilato borghese in età liberale.

PER UNO SGUARDO d’insieme su premesse, percorsi e conseguenze di quel giorno catastrofico, rimangono indispensabili gli studi di Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze (il Mulino, prima edizione 2003), come anche i suoi studi sulle forze armate tra il 1943 e il 1945. È risaputo come nei fatti l’esercito italiano fosse abbandonato a sé stesso, senza indicazioni di sorta sul da farsi, dinanzi alla netta risposta tedesca, da subito molto violenta, aggressiva e determinata a impedire qualsiasi reazione, occupando quindi i nodi strategici della Penisola. A ciò si aggiungeva il caotico e improvvisato abbandono di Roma dei vertici militari e politici del Paese. Badoglio, Vittorio Emanuele III, suo figlio Umberto, insieme alle maggiori cariche dello Stato, dopo avere raggiunto Pescara ripararono velocemente a Brindisi, ben presto sotto il controllo angloamericano.

LO STATO DI CONFUSIONE generatosi tanto repentinamente fu poi aggravato dall’incomprensione, da parte dei più, del significato e delle effettive conseguenze delle clausole armistiziali. Anche per questo l’esercito sbandò da subito. I reparti, disseminati tra il territorio italiano e l’ampia area in cui stazionavano come truppe d’occupazione, tra le Alpi marittime, i Balcani, l’Egeo, ed oltre ancora, si dissolsero. I tedeschi, nel mentre, applicarono le misure di ritorsione che già da tempo avevano predisposto, a partire dall’«operazione Alarico» che implicava non solo il controllo militare del territorio nostrano ma anche il disarmo e la cattura dei militari italiani.

In questo gigantesco polverone, a cessare di esistere non fu una generica «patria», depositaria di mitologie fasciste così come di una retorica interclassista di matrice post-risorgimentale, bensì quell’ossatura istituzionale la cui intima funzione era stata, fino ad allora, quella di garantire essenzialmente l’ordine gerarchico interno al Paese. Qualunque esso fosse. Anche da una tale rottura, in sé comunque tragica, si sprigionarono forze inedite, destinate quindi a ridisegnare il volto dell’Italia.