«Se la politica funzionasse bene, i cittadini non farebbero causa allo Stato. Detto questo, non pensiamo che il diritto di per sé possa cambiare il mondo. Però può diventare uno strumento trasformativo». Raffaele Cesari è uno dei tre avvocati che assistono l’associazione Asud e i 200 ricorrenti nella causa climatica contro lo Stato italiano accusato di non fare abbastanza per contrastare il cambiamento climatico.

Avvocato, come è nata l’idea di portare lo Stato in tribunale?

Abbiamo deciso di ricorre alla giustizia – cosa che sta avvenendo in molti stati nel mondo, sono almeno 1500 i contenziosi climatici censiti fino ad oggi – perché lo Stato italiano, pur avendo firmato accordi internazionali particolarmente rilevanti come l’Accordo di Parigi, pur avendo assunto promesse solenni e fatto dichiarazioni che ammettono la gravità della situazione, non ha tradotto questi impegni in misure concrete. Da qui il ricorso al tribunale che di per sé non crediamo possa essere risolutivo, tanto che ci troviamo nell’ambito di quella che viene definita strategic litigation, o giudizio strategico. Non si tratta semplicemente dell’accesso alla giustizia, ma di portare avanti un’azione più complessiva di sensibilizzazione della società e dell’opinione pubblica rispetto all’emergenza climatica. Per fare un esempio, noi in Italia abbiamo avuto l’introduzione del reato di tortura in seguito all’attivazione di un giudizio strategico da parte di un detenuto. Non solo venne fatto un ricorso davanti ad un tribunale, ma questo contribuì a far nascere nella società un movimento di sensibilizzazione e partecipazione.

Una strategia per riportare il dibattito sul clima al centro del dibattito politico e magari anche sui media?

Il problema è superare il muro di gomma, poi c’è la difficoltà, riscontrata un po’ in tutti gli stati, di fare valere gli obblighi internazionali adoperando gli istituti del diritto nazionale. Del resto il cambiamento climatico è un fenomeno inedito. Per certi versi il diritto sconta una certa arretratezza. Come sappiamo, il diritto arriva sempre dopo che si sono manifestati certi fenomeni. Ciò non toglie che esistono degli istituti giuridici tradizionali che possono essere interpretati per ricondurre al loro interno anche il fenomeno dei cambiamenti climatici. Noi l’abbiamo fatto utilizzando una norma cardine del nostro ordinamento, l’articolo 2043 del codice civile, neminem laedere, nella sua interpretazione preventiva. In sostanza, quando sono in gioco diritti fondamentali come il diritto alla salute, alla vita personale e familiare, all’ambiente salubre, non serve attendere che il danno si produca, semmai serve agire per prevenire il danno. Questa interpretazione è avallata da una sentenza molto interessante della Corte Costituzionale del 1987 scritta un anno dopo la tragedia di Chernobyl e dopo la pubblicazione del bellissimo libro di Ulrick Beck La società del rischio, ovvero nel momento in cui si è formata nella società una sensibilità particolare.

Esiste dunque un diritto al clima sicuro?

Il diritto al clima stabile e sicuro deriva per via interpretativa dal diritto alla vita, alla salute, alla vita familiare. Il clima sicuro è il presupposto di tutti quanti i diritti, ovunque.

Sotto accusa c’è il Pniec, Piano nazionale integrato energia e clima, il documento programmatico dello Stato, di cui da più parti, e non solo dal mondo ambientalista, si chiede un aggiornamento. Voi ne avete fatto una disamina molto puntuale: basterà aggiornarlo alzando l’ambizione o va cambiata l’impostazione?

Questo non spetta a noi dirlo. Noi diciamo che lo Stato è inadempiente e che le misure contenute nel Pniec non sono sufficienti. Se tutti gli stati si comportassero come l’Italia, secondo i calcoli di Climate Analytics, un istituto di ricerca molto autorevole, arriveremmo ad un aumento della temperatura di 3°C entro la fine del secolo. Sarà lo Stato a decidere come intervenire.

La parola tornerà al Parlamento?

Nel caso in cui dovesse essere condannato, come ci auguriamo, lo Stato adotterà le iniziative che ritiene necessarie. Noi su questo non mettiamo parola. Non c’è dubbio che con questa causa noi abbiamo individuato un vulnus, una lacuna della politica.

Il negazionismo climatico può essere ancora usato come argomentazione giuridica?

No. Del resto anche i trattati internazionali, come la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, rinviano continuamente alle acquisizioni della scienza. Nel nostro caso, la scienza consolidata dei report IPCC che lo Stato italiano ha firmato e sottoscritto. Aderendo a questi documenti è come se lo Stato italiano avesse consumato la sua discrezionalità. Nel nostro ordinamento esiste la cosiddetta riserva di scienza, ovvero esiste un nucleo di sentenze della Corte Costituzionale che affermano che l’attività dei pubblici poteri è vincolata alle acquisizioni scientifiche. Nel caso dei cambiamenti climatici, l’esistenza di un consenso scientifico solido sulla necessità di contenere l’aumento della temperatura per prevenire i danni e sulla necessità di farlo tagliando le emissioni di gas serra, vale a limitare la discrezionalità politica e amministrativa, perché sono in gioco diritti fondamentali.

Le sentenze di condanna per inadempienza climatica del caso Urgenda contro lo Stato olandese, quella più recente Affaire du siècle contro lo Stato francese o la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che impone di rivedere la legge sul Clima, fanno in qualche modo giurisprudenza?

Sì, anche se non in maniera decisiva. Quello che riscontriamo è che la tendenza degli ultimi contenziosi in Europa è stata molto positiva. Sembra che ci sia una sensibilità che arriva anche nelle aule dei tribunali.

Prima di depositare la citazione in giudizio avete cercato di interloquire con il governo o i governi di questi ultimi anni?
No, almeno non formalmente. Del resto la citazione in giudizio era stata ampiamente annunciata.