Nel 1995, per celebrare il centenario della Biennale di Venezia, Jean Clair allestì a Palazzo Grassi una mostra dal titolo Identità e alterità. Figure del corpo 1895-1995. Le opere presentate avevano tutte a che fare con la corporalità dell’uomo, in particolare con il volto.

Perché questa scelta? Secondo il critico francese, perché attraverso il corpo l’arte del ventesimo secolo è riuscita a porre una delle maggiori questioni filosofiche della modernità: la dialettica secondo cui il processo di formazione dell’identità genera necessariamente un’alterità che spesso subisce un destino di oblio. L’«altro» e la «differenza» sono fuori gioco, relegati in un angolo: una volta formatasi, l’identità vive della sua stessa autoreferenzialità.

Su questo tema, in parallelo alle riflessioni di filosofi quali Heidegger e Derrida, corrono le avanguardie storiche e le nuove correnti artistiche del Novecento. Clair insiste sull’infinita varietà di rappresentazioni di corpi apparsa nelle pitture di questo secolo: provato dalla sofferenza, illuminato dalla gioia amorosa, fiaccato dalla fatica fisica, il corpo è sempre identico a se stesso, eppure sempre diverso. E, insieme a esso, il volto. Come ebbe a dire Georg Simmel, «non c’è nel mondo visibile alcuna struttura che come il volto umano riesca a convogliare una così grande varietà di forme e superfici in una così incondizionata unità di senso». Per Clair, l’unità dell’arte novecentesca risiede proprio nel ricordare sempre che le cose potrebbero essere altrimenti, che per affermare qualcosa è sempre necessario negare qualcos’altro, il quale, tuttavia, continua a mantenere lo stesso diritto a esistere e a essere rammentato. Così, ogni asserzione dogmatica – nel caso della Biennale del 1995, il riferimento era alla teoria formalista – dev’essere ricondotta a ciò che cade fuori dal perimetro del suo dogma, a ciò che è eversivo e scomodo perché sempre differito e differente.

Con l’avanzare del nuovo millennio, l’orizzonte teorico di Clair continua a essere il medesimo. Il fondale scandagliato dalla sua ricerca rimane quello dell’arte come espressione dell’alterità, di ciò che non è immediatamente presente e visibile, ma che cionondimeno anima e scuote da altri lidi le nostre esistenze.

Con Hybris La fabbrica del mostro nell’arte moderna (Johan & Levi, traduzione di Rossella Rizzo, pp. 168, euro 24,00), Clair rilegge la nascita dell’arte moderna da un angolo visuale tetro e spesso terrificante. Un angolo buio dove abitano fantasmi, esseri deformi e mostri. Soprattutto a partire dal diciottesimo secolo, l’arte avrebbe assunto il compito di mostrare ciò che a prima vista non si dà, ciò che l’occhio razionale del logos non può cogliere direttamente. D’altra parte, «mostrare» deriva dal latino monstrum, che significa soprattutto «segno divino», «prodigio». Per Clair, il mostro rappresenta dunque l’apparire di una verità altra, l’irrompere dello straordinario nell’ordinario. È parola sul destino e sulla natura umani che scende dall’alto, da una terra straniera impermeabile alla lettura e agli schemi della ragione discorsiva.

Hybris è una carrellata sulle principali tipologie di mostri ed esseri fantasmagorici apparsi nella pittura moderna. La prima ha come protagonisti gli omuncoli. L’anno cruciale è il 1895. Louis Lumière inventa il cinema, che incrina una volta per tutte la fiducia che l’uomo riponeva nell’assoluta chiarezza dell’immagine. Quest’ultima «subisce il destino non soltanto di essere meccanicamente riproducibile, perdendo ogni volta parte della sua sostanza come una cipolla che venga sbucciata, ma anche di essere ormai indefinitamente sostituibile, eternamente transitoria, sottile e plastica, mobile e labile». L’immagine, cioè, smette di essere autoevidente, portatrice di verità fisse e indiscutibili. Quella dei fratelli Lumière emerge da un fondo oscuro, introduce mondi inaspettati, nascosti nella penombra.

Sempre nel 1895, il fisico tedesco Röntgen scopre i raggi X. L’umanità deve fare i conti con forze ed energie invisibili in grado di attraversare la materia e che ridimensionano il suo bagaglio conoscitivo. Inoltre, i raggi X aprono letteralmente gli occhi dello spettatore sull’interno di toraci, crani, polmoni, stomaci. Il mondo si amplia, suggerendo che ancora numerosi sono gli angoli non ancora illuminati dalle lanterne rassicuratrici della conoscenza. Oltre il visibile c’è di più; l’uomo è chiamato alla sfida di rappresentare l’irrapresentabile.

Da queste due invenzioni, a cui è d’obbligo aggiungere quella della psicoanalisi da parte di Freud, secondo Clair si può risalire alle illustrazioni del neurologo canadese Wilder G. Penfield e soprattutto al suo Homunculus motorio e homunculus sensoriale. In questa rappresentazione grafica del corpo umano, alcune parti sono abnormi: bocca, mani, piedi, occhi. Infatti, a esse si associano attività decisamente complesse ed evolute, che segnano la differenza tra la specie umana e le altre. L’omuncolo, in altre parole, raffigura «dei rapporti, delle proporzioni, delle fluttuazioni che non appartengono all’ordine della realtà oggettiva e del mondo visibile». A partire da qui, Clair può spiegare alcune figure di omuncoli comparse agli inizi del ventesimo secolo, presenti in dipinti quali la Métamorphose di Picasso, le biomorfie di Miró e la Métamorphose des amants di Masson. Il mostro è il mezzo per afferrare l’universo immateriale e terribile che caratterizza e rende unica la civiltà umana.

Nei capitoli successivi di Hybris, Clair analizza le figure del gigante e dell’acefalo. Lo schema d’interpretazione rimane il solito. Con riferimento alla seconda categoria, esemplificativo è il caso di Bataille e della sua rivista «Acéphale». Nella copertina disegnata da Masson, un uomo senza testa ripropone il paradigma vitruviano di Leonardo. Le proporzioni dell’essere umano ideale non prevedono, anzi non non mettono più capo – letteralmente – alla saggezza e all’equilibrio della testa che pensa. Per Clair, l’invito è a leggere la realtà non più attraverso la logica razionale dell’intelletto, ma tramite gli schemi labirintici e talvolta contradittori dei sensi e del corpo.

A chiudere il volume, il richiamo al titolo dello stesso, al concetto greco di hybris. Esso designa la dismisura, l’eccesso, il dionisiaco nietzscheano. Le forme mostruose nell’arte sono da considerare «come manifestazioni di un individuo liberato dai suoi limiti, dalle sue alienazioni, dalle sue conformazioni, o persino come simboli di un’umanità svincolata finalmente dalle catene della ragione». Un’umanità e un individuo che riescono a dar conto dell’infinita varietà che li caratterizza e, per contrasto, del canone, dell’identità che li sorregge in quanto tali. Il mostruoso, esibendo deliberatamente corpi e soggetti liberi dalle forme «normali», rimanda in continuazione proprio a quella norma che nega. Acefali e omuncoli arricchiscono i modi di rappresentazione dell’essere umano, restituendone da ultimo un’immagine più autentica e densa.

Ma per Clair la hybris, la tracotanza, non ha a che fare solo con il singolo individuo. Nella mancanza di misura propria dell’arte moderna, egli rileva una tendenza più ampia, che coinvolge l’intera comunità: «La hybris della modernità è il sintomo di una società in crisi, probabilmente sull’orlo della scomparsa». Parole che suonano più da monito che da imparziale commento d’accademia.