In tempi pandemici e di confini «ristretti», chi non volesse varcare le frontiere nazionali, potrà recarsi a Firenze per assistere all’ultimo capitolo – riepilogativo e allestito per tappe quasi dimostrative – della trilogia che Palazzo Strozzi ha dedicato all’avventuroso cammino dell’arte a stelle e strisce.
È qui, infatti, che ci si può addentrare nei meandri delle «ribellioni linguistiche» che caratterizzarono molta della creatività oltreoceano, complice anche l’imprinting ricevuto dai numerosi «esuli» europei in fuga dal nazismo e dalla guerra, sbarcati negli States.

LA CITTÀ TOSCANA non è una «ospite» casuale di American Art 1961-2001 (a cura di Vincenzo de Bellis e Arturo Galansino, fino al 29 agosto, catalogo Marsilio). È avvezza alle provocazioni statunitensi fin dagli anni 50 quando già Rauschenberg apparve, ebbe i suoi detrattori che lo accusarono di portare con sé «cianfrusaglie» e lui buttò buona parte dei lavori direttamente nelle acque dell’Arno.
La mostra attuale pesca dalla collezione del Walker Art Center di Minneapolis, proponendo cinquantatré artisti, dai Pop Warhol e Lichtenstein fino alla scultrice Nevelson, ai video di Nauman, le spiazzanti foto di Cindy Sherman, gli slogan femministi di Barbara Kruger, il minimalismo della relatività di Morris e Judd, il corpo ibrido di Matthew Barney, i malinconici cowboy di Richard Prince, le «archiviazioni identitarie» dell’afromericana Lorna Simpson.

Foto di Ela Bialkowska, Okno Studio

NELLA SUA RICOGNIZIONE si ferma alle soglie della tragedia che spalancò come una voragine il terzo millennio: quel 2001 segnato dal crollo delle Twin Towers e da ogni possibilità di convivenza fra culture diverse. Se l’itinerario ci avesse condotto fino a oggi, avremmo lambito le ragioni del movimento Black Lives Matter. Che, in anticipo sui tempi, è un po’ quello che rappresenta da sempre Kara Walker (a lei l’onore di chiudere questa «cavalcata americana») con le sue sagome nere e dal sapore favolistico-horror. L’artista racconta secoli di soprusi in forma popolare e finto-edulcorata, con personaggi abbigliati come schiavi o anche in virtù di padroni abusanti e violenti, dediti a stupri e uccisioni.
Il percorso della mostra affida ad alcune opere iconiche la storia Usa (sia culturale che sociale) come fosse un vademecum visivo che raccoglie in una summa finale «il meglio di», aggregando i lavori per assonanze tematiche e fluide associazioni concettuali (come «Crossing boundaries»).

IN QUESTO SENSO, la rassegna rispetta la vocazione del Walker Art Center, museo nato nel 1874 per contenere la collezione del business man Thomas Barlow Walker e poi via via diventato un luogo polivalente delle espressioni del contemporaneo, compreso lo Spring Dance Festival fin dai suoi esordi.