Di processi Silvio Berlusconi ne ha macinati tanti. Ma il caso Ruby non è un processo come gli altri: è quello che ha segnato il declino del presidentissimo. A lui è costato la presidenza del consiglio: senza il lavoro ai fianchi dello scandalo “Olgettine” non ci sarebbe stato verso di rimuoverlo da palazzo Chigi. Al paese da lui malgovernato è costato anche di più: un’ondata di discredito internazionale le cui nefaste conseguenze dovranno un giorno essere contate, e sarà una somma lunga.

All’inizio, quando la notizia venne fuori sette mesi dopo la nottata del 27 maggio 2010, sembrava una scena da commedia scollacciata. La minorenne marocchina di facili costumi finita in questura per rissa da cortile con una collega. L’uomo più potente del paese che si scomoda per cavarla dai guai in tempi record, e pur di vincere le peraltro tenui resistenze non esita a inventarsi una balla che nemmeno Alberto Sordi nei suoi più cialtroneschi ruoli: zio Mubarak. La più avvenente tra le consigliere regionali lombarde buttata giù dal letto e scaraventata in questura nell’improbabile veste di «affidataria» della minorenne.
Si capì subito che quella storiella boccacesca sarebbe diventata una grana politica di serie A, tanto più che il satrapo era palesemente recidivo. Quando entrò in scena la disinvolta Rubacuori c’era già stato l’incidente della partecipazione del potente alla festa per raggiunta maggiore età di Noemi Letizia, con tanto di lettera aperta firmata dalla già quasi ex moglie Veronica Lario, più chiara ed esplicita come non si poteva: «Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà». Poco dopo ecco l’incresciosa nottata con Patrizia D’Addario, che minorenne non era ma in compenso era fornita di registratore pronto a scattare in prossimità del «lettone di Putin».

Sì, che lo scandalo non si sarebbe risolto in un figuraccia un po’ grottesca lo si indovinò al volo, ma non che sarebbe deflagrato in un’orgia di melmosità con tanto di feste corredate da stautette priapiche, un’intero palazzo popolato dalle prezzolate del nababbo al timone del paese, un’alluvione di intercettazioni più da commedia umana all’amatriciana che da romanzetto porno. Nel complesso, una cloaca.

Però, a quanti non erano accecati da furor antiberlusconiano, feticismo per le sbarre o moralismo più vicino a Salem che ai pudori vittoriani, fu altrettanto evidente che dal punto di vista strettamente penale il peso della vicenda era discutibile e che, se il rinvio a giudizio era obbligatorio, la condanna non era affatto certa. Si sa come è andata: due sentenze non diverse ma opposte. Pesantissima la prima, con una pena comminata addirittura superiore alle richieste dell’accusa. Rovesciata quella emessa ieri dalla Corte d’appello, che oltrepassa davvero le più rosee speranze dell’avvocato Coppi.

L’orchestra dietrologica: qui Renzi ci cova, come non vedere il suo zampino dietro la sorpresina? Si armano i molti secondo cui le sentenze non si discutono. A meno che non assolvano. Ovvio che dalla sponda opposta replichi un coro altrettanto stridente. Lo sentiremo ripetere per mesi che detta sentenza è prova provata del complotto e del castello di bugie costruito per sgambettare il legittimamente eletto. Sono favole, le une e le altre. Penalmente il caso Ruby era davvero fortemente dubbio. Politicamente no. Politicamente doveva costare il posto a un presidente del Consiglio dimostratosi indegno di governare. E questo nessuna assoluzione potrà mai smentirlo.