Il metodo filologico del Lachmann approdò alla letteratura italiana – nel suo duplice alveo latino e volgare – giusto a cavallo tra Otto e Novecento, con le due magistrali edizioni critiche del De vulgari eloquentia (1896), di Pio Rajna, e della Vita nuova, di Michele Barbi (1907). Nel nome di Dante, dunque, e non c’è da stupirsi. L’edizione del De vulgari – l’introduzione è tuttora un modello di scuola – non chiuse la strada agli studiosi successivi in forza della scoperta, due decenni dopo, di un terzo e decisivo testimone manoscritto, il codice Lat. folio 437 della Staatsbibliothek di Berlino, riesumato dall’istrionico filologo tedesco Ludwig Bertalot. Il codice berlinese costrinse il settantenne Rajna a riaprire i giochi, ma non gli consentì di condurre a termine il compito: la nuova edizione toccò ai posteri. Per la Vita nuova invece il testo Barbi parve lasciare, specie dopo la revisione del ’32, pochi margini di intervento. Questo finché Guglielmo Gorni, con il piglio apoditticamente sbarazzino e dissacrante che a volte lo contraddistingueva, non volle gettar scompiglio nello stagno proponendo una ricostruzione del tutto fuori dal canone. Oltre a rilievi di lingua e di sostanza, Gorni ristrutturò, sulla fede dei testimoni più antichi, anche la paragrafatura e – in omaggio alla autocitazione latina – il titolo (Vita nova). Ne discesero discussioni lunghe e non di rado aspre, che coinvolsero settori importanti dell’accademia. Alla fine l’edizione Gorni andò in stampa da Einaudi con la nuova suddivisione e il nuovo titolo (1996) ma non fece breccia, tanto che di recente si è tornati a Barbi.
Stefano Carrai è certo fra coloro che sul Dante lirico e sulla Vita nuova si sono impegnati con maggiore garbo e lucidità, producendo una nuova edizione del libello per la BUR (2009) e assecondandola con una serie importante di contributi su aspetti di lingua, stile e contenuto. Sono lavori che datano tra 2005 e 2019 ed escono ora in una elegante raccoltina per le Edizioni della Normale: Il primo libro di Dante Un’idea della Vita nova ( pp. 144, € 10,00). Già il titolo conferma l’accoglimento – distillato, beninteso – della prospettiva di Gorni, che si estende anche alla nuova paragrafatura, ma altri sono gli aspetti su cui mette conto soffermarsi. Ribadita come probabile la datazione al 1293 per l’inizio del trattato (due rivoluzioni sinodiche di Venere dalla morte di Beatrice – 20 agosto 1290 – ossia 1168 giorni, secondo il computo di Alfragano seguito da Dante), con «gli ultimi colpi di lima» al 1296, Carrai passa a discutere il problema, delicato, dei «pentimenti d’autore». Per alcune Rime di Dante poi innestate nel prosimetro, la tradizione estravagante trasmette varianti non liquidabili come banalizzazioni o capricci di copista. Sono interventi che tratteggiano una sorta di «sistema in quanto muovono tutti verso una ricerca di espressività e di maggior efficacia del dettato poetico» compatibile con la nuova collocazione.
Varianti d’autore emergerebbero anche da rami minoritari dello stemma, in particolare dal ramo k «autorevolmente rappresentato dal \[codice\]Chigiano L VIII 305». Qui le didascalie («Qui appresso è l’altro sonetto, sì come dinanzi avemo narrato», e altre) sfuggono alle dinamiche psicologiche proprie di un copista per configurarsi invece come raccordi attribuibili all’autore, tutt’altro che nuovo – come si sa – ad analoghi processi di sutura. Sarebbe un tipico caso di «banalizzazione poligenetica» dalla quale si salvò solo una parte della tradizione testuale.
Il tema delle varianti ci riconduce a Gorni. Il celebre sonetto che tutti noi abbiamo mandato a memoria al liceo col primo verso Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, fu scardinato da Gorni rimpiazzando il notaio e buon rimatore Lapo col meno eufonico (e più bizzarro) Lippo. La proposta, consacrata da De Robertis nell’Edizione Nazionale delle Rime di Dante, ha subito progressive e severe bacchettate che ne hanno decretato la finale inconsistenza. Rimasto padrone del campo, Lapo si è dato a duellare con Lupo a proposito di una contestata lezione del De vulgari, laddove Dante (I xiii 4) enumera gli eccellenti tra i rimatori in volgare: «Guidonem, Lupum et unum alium», cioè lui stesso, Dante. La lezione Lupum è di tutti i codici ma gli editori, eccetto Enrico Fenzi (2012), hanno sempre raddrizzato il testo in Lapum in forza della terna del sonetto. Carrai ripercorre ora il tessuto metrico-stilistico di Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi amore (Vita nuova XXVI) e la aggancia a Novo cant’amoroso, nuovamente attribuita a Lupo degli Uberti, corroborando le osservazioni di forma con «echi e rispondenze di carattere fraseologico e contenutistico». Se ne conclude che «tra i due testi intercorse un rapporto diretto, al punto da parere quasi l’uno scritto in gara con l’altro». A questo punto, muovendo da un inciso di Contini per cui Lupo e Lapo Farinata degli Uberti dovrebbero fare un unico rimatore, si porta Lupo come podestà e capitano prima a Chiusi, poi a Mantova e infine a Verona (1301-3 e 1306), col che «il cerchio amicale» consegnato al De vulgari si chiuderebbe. Ma l’identificazione Lupo / Lapo nasce da uno svarione dell’erudito veronese Giovanni Battista Biancolini che, attingendo alla Istoria di Verona di Girolamo dalla Corte (non nuovo a misfatti onomastici), chiamò il podestà di Verona «Lupone degli Uberti» laddove tutti i documenti d’archivio recano sempre e solo «Lapus de Ubertis de Florentia», cioè Lapo figlio di Azzolino di Farinata (nipote di Lapo Farinata), colui che nel 1302 sottoscrisse l’alleanza antifiorentina assieme a Dante Alighieri.
La confusione è scesa per li rami, complice l’autorevole prefazione di Rodolfo Renier alle Rime di Fazio degli Uberti, giù giù fino alla recente voce Lupo degli Uberti del Dizionario Biografico. Dunque Lupo non è Lapo. Se ciò autorizzi la risalita a testo di Lupo anche nel De vulgari non saprei, ma il recupero di Carrai ci ricorda che prima di contrariare la tradizione manoscritta dobbiamo pur tenere presente che di Fabruzzo Lambertazzi abbiamo solo un sonetto e di Gotto mantovano nulla.