Può sembrare uno scherzo, ma la storia della sinfonia ha inizio nel segno della tuba. È un dato più nominale che sostanziale, per la verità, ma i documenti parlano chiaro: la prima apparizione del termine sinfonia (in italiano) risale a un manoscritto del XV secolo, conservato a Lipsia, in cui si parla di una Sinfonia per tuba et altri strumenti armonici. Che cosa sia questo misterioso oggetto sonoro non lo sapremo mai (la musica è andata perduta): sappiamo solo che la tuba rinascimentale era uno strumento assai diverso (più piccola e dal suono più acuto) rispetto a quella ottocentesca.

Ma al di là delle questioni organologiche il manoscritto di Lipsia ci mette sulla buona strada per comprendere le origini di un genere musicale «rivoluzionario», la sinfonia, appunto, che all’inizio del Settecento sconvolge la prassi della musica d’arte e poi la domina fino agli albori (e forse oltre…) del Novecento storico. La presenza «storica» di uno strumento concertante ci dice infatti che la sinfonia (la quale, per sua natura, non prevede la presenza di un solista) nasce in realtà nell’ambito del genere-concerto e ne è quindi, in qualche misura, l’evoluzione naturale.

Per comprendere la natura e la misura di questa «rivoluzione» occorre ancora una volta tornare a Roma. È il 1675, terzo Anno Santo del secolo. Per l’occasione, la ricchissima Confraternita dei Fiorentini commissiona ad Alessandro Stradella, compositore bolognese al servizio delle più potenti famiglie romane, la bellezza di quattordici oratori. Il 31 marzo, presso la Chiesa dei Fiorentini, viene eseguito San Giovanni Battista, oratorio in due parti su testo di Ansaldo Ansaldi. Per allestire il versante strumentale Stradella ricorre a una disposizione orchestrale mai vista prima.

Divide infatti l’orchestra in due sezioni distinte: ai piedi dell’altar maggiore dispone un gruppo di strumenti ad arco piuttosto nutrito, formato da violini, viole (in numero doppio) e bassi. Accanto ai cinque solisti di canto, un gruppo più piccolo, costituito invece da due soli violini più il basso continuo. Al primo insieme assegna il compito di eseguire la sinfonia d’apertura e di sostenere il coro, al secondo di accompagnare i recitativi e le arie dai cantanti. Assistiamo dunque, in questo giorno cruciale per la storia della musica occidentale, alla genesi di quello che sarebbe diventato, al di fuori delle pareti di una chiesa, il «concerto grosso», un genere musicale assai popolare al tempo, che si basava proprio sul dialogo tra l’esile concertino e il più robusto ripieno.

Lo stesso Stradella lo avrebbe sperimentato l’anno dopo con la Sonata di viole in re maggiore, primo esempio di musica strumentale suddivisa in due gruppi di peso e funzioni diverse. Negli anni successivi, dalla matrice comune del concerto grosso si sviluppano da un lato il concerto solistico, come accade nell’ultimo dei dodici Concerti grossi op. 6 di Arcangelo Corelli (il quale, non a caso, sedeva al leggio del primo violino di concertino proprio in quella giornata storica del 31 marzo 1685), dall’altra, appunto, la sinfonia. Nel primo caso riducendo a uno i due strumenti del concertino, dall’altra inglobando il concertino nel ripieno dell’orchestra.

Sono cruciali, da questo punto di vista, le ben 70 Sinfonie di Giovanni Batista Sammartini, compositore milanese nato esattamente nel 1700, che conservano la struttura del concerto grosso di Corelli, ma aboliscono la presenza del concertino. Nonostante alla sinfonia «moderna» non possano essere assegnati un anno e un luogo di nascita precisi, la vera «rivoluzione» lungo la storia di questo genere «illuminato» la compie Carl Philip Emmanuel Bach, il «figlio geniale» del grande kantor di Lipsia. È lui a interpretare, nella Germania di metà Settecento, il gusto «progressista» del ceto medio commerciale e intellettuale delle città settentrionali e a fare della sinfonia il genere par exellence del rinnovato ordine sociale governato dalla borghesia dominante. E a compiere dunque una vera e propria «rivoluzione borghese» nel seno della musica d’arte.