Dalla teoria del significato, agli atti performativi, alla struttura della mente
Josef Albers, «Mma 1», 1970
Alias Domenica

Dalla teoria del significato, agli atti performativi, alla struttura della mente

Saggi «Il primo libro di filosofia del linguaggio e della mente», a cura di Elisa Paganini, da Einaudi
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 9 ottobre 2022

Nell’ormai classico La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Thomas Kuhn ricorda l’importanza dei «manuali scientifici, delle opere di divulgazione e le opere filosofiche modellate su di loro». Tutti e tre i generi letterari «registrano i risultati permanenti prodotti dalle rivoluzioni passate». Sono testi apparentemente dimessi, eppure – ricorda lo storico della scienza – è proprio a essi che una scuola di riflessione teorica, un paradigma, affida l’istantanea dei futuri panorami di ricerca.

Per questa ragione, il volume appena uscito a cura di Elisa Paganini, Il primo libro di filosofia del linguaggio e della mente (Einaudi, pp. 256, euro 23,00) ha un interesse non secondario. Raccoglie i contributi di sei diversi autori (oltre alla curatrice, di Davide Bordini, Laura Caponetto, Andrea Raimondi, Alfredo Tomasetta e Sandro Zucchi) impegnati nella stesura di una ventina di sezioni brevi, a metà strada tra un succinto capitolo di manuale e un’estesa voce di dizionario.

Sin dal titolo, il testo si mostra visibilmente rivolto al lettore in erba e tuttavia non è affatto elementare, anzi è in grado di illustrare con chiarezza il modo in cui un’importante scuola di pensiero, la filosofia analitica, lavora sul linguaggio e sulla mente.

L’esigenza di un’argomentazione vicina ai canoni della logica formale, la predilezione per gli autori anglosassoni, una filosofia che procede più per questioni che per epoche storiche (o autori) sono alcune delle caratteristiche riconosciute del paradigma. A ragion veduta, dunque, i primi capitoli sono dedicati alla teoria del significato delle «lingue naturali» (dall’epiteto «storico-naturale» la prima parte è omessa volutamente). Classici come Gottlob Frege e Bertrand Russell sono accompagnati dall’esposizione degli sviluppi successivi ad opera, ad esempio, di Saul Kripke e Hilary Putnam. Con l’espressione «teoria del significato» si intende l’insieme delle risposte filosofiche, di certo complesse e di rara raffinatezza, a una questione di fondo davvero elementare: come facciamo a comprendere il significato di quel che diciamo?

Il libro ha il pregio di farci toccare con mano quanto difficile sia un processo che, intuitivamente, parrebbe scontato. Per smarrire un senso di falsa sicurezza, è sufficiente analizzare con attenzione una frase all’apparenza banale. Cosa dico quando affermo che «ogni gatto del vicinato è innamorato di una gatta del vicino»? Il messaggio sembra ovvio, rubato a un lungometraggio della Disney. Eppure, può significare cose assai diverse: che, della mia gatta Margot, sono innamorati tutti i felini della zona; oppure che ogni gatto della zona è innamorato di una gatta, una diversa dall’altra e dunque non necessariamente di Margot.

Diffidare dell’ovvio significa, ricorda il libro, mettere in discussione anche gli antichi adagi, cioè gli stereotipi che affliggono il cosiddetto mondo della comunicazione. Il proverbio per il quale «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare» non racchiude la saggezza degli anziani, come vorrebbe una postura nostalgica, bensì una vera e propria presa di posizione filosofica circa il linguaggio. Una posizione che una parte consistente del testo contribuisce a demolire. Quando dico che «prendo questa donna come mia legittima sposa» oppure affermo che «domani ti spaccherò la testa» non mi limito a dire, ma agisco proprio perché dico qualcosa, in questo caso giuramenti e minacce.

Il testo è utile, dunque, per chi voglia orientarsi nel mondo della filosofia analitica del linguaggio: l’ultima sezione, ad esempio, si occupa del concetto di «mente» tramite un gioco di sponda con le scienze cognitive di Noam Chomsky. Tra le pagine del libro emerge l’impugnatura di diversi utensili necessari alla discussione contemporanea sia linguistica che etico-politica. Difficile, infatti, immaginare una teoria delle istituzioni che possa fare a meno degli enunciati che John L. Austin chiama «atti performativi», ovvero il fare cose con le parole, creare situazioni di fatto solo pronunciando una frase, per esempio: «la seduta è sciolta» o «da oggi la schiavitù è abolita».

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