Un angolo di paradiso. Una casa, un giardino. Una filastrocca infinita, testarda e gioiosa, il sentimento infantile del calore dell’attesa di quelle feste di famiglia, sempre con gli stessi riti, le candeline, gli abbracci, le canzoni. Qualcosa che al momento sembra eterno, indistruttibile. Qualcosa che ci protegge da tutto. «Al mercato ho comprato un limone, due limoni, tre limoni, quattro limoni», recitava sorridente una bambina. Un colpo, un secondo colpo, l’incanto spezzato. Un braccio che punta una pistola. La vertigine di uno sguardo nel passato, traccia indelebile nella memoria del corpo e del cuore, che poi diventa parte del ritmo instancabile della storia collettiva, di quello scorrere vorticoso nel tempo in cui i dolori, le gioie, gli amori, le speranze delle vite dei singoli diventano un unico fluire.

ACCADE ne Gli anni di Marco D’Agostin, visto all’Arena del Sole di Bologna per il festival Vie, di ritorno in scena sabato e domenica al festival Aperto di Reggio Emilia, un solo per e con Marta Ciappina, danzatrice di specialissima grana emotiva e qualità di movimento, racconto biografico in cui la danza è compagna stretta di una vita. Una ballata gestita come un thriller, tra parole, canzoni, e oggetti gialli: un telefono, dei grossi numeri, una cuffia per ascoltare musica. Ma anche un cane di porcellana, vecchi filmati amatoriali di famiglia, traiettorie nello spazio dalle dinamiche non prevedibili perché così è la vita.
Marco D’Agostin, dopo il bellissimo Best Regards dedicato a Nigel Charnock, con Gli anni prosegue nel suo coraggioso affondo dentro gli affetti e questa volta lo fa sulla scorta di un intreccio ardito che, su una colonna sonora di pezzi pop dai ‘60 a oggi, mischia nella omonimia dei titoli la nostalgia della canzone degli 883 con il travolgente romanzo del Premio Nobel Annie Ernaux e con i racconti di sé di Marta Ciappina. Un precipitare dentro e fuori dall’allegria e da un dolore spartiacque con un montaggio incalzante in cui si percepisce l’influenza ritmica del romanzo della scrittrice francese, quel «salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più» (sempre Ernaux), quel sapersi in fondo parte di un tutto più grande di ogni singola storia, tra immagini destinate a svanire. Una danza armata di ricordi che sfida il tragico come «una colonna verticale proiettata verso il futuro», un moto vitale nell’ostinata consapevolezza dell’indispensabile.