Apriremmo scorci inediti sulle prospettive dell’umanità se ancorassimo il racconto della storia globale esclusivamente alle fonti archeologiche? È l’interrogativo che attraversa il saggio di Brian Fagan, professore emerito di antropologia presso l’Università della California, e della giornalista Nadia Durrani: Breve storia archeologica dell’umanità. Dalle origini alle civiltà preindustriali (Carocci, pp. 240, euro 21).
Dopo essere diventati anatomicamente moderni, appena 120mila anni fa, vivemmo una rivoluzione cognitiva dai contorni sfuggenti, i cui effetti ci appaiono straordinari. È l’archeologia, nell’ovvia assenza di fonti scritte, a sottolineare la velocità con la quale, intorno a 45mila anni fa, fu colonizzata l’Australia. Anche se la geografia del sud-est asiatico era allora radicalmente diversa, perché il livello dei mari inferiore di quasi cento metri, certamente da Timor servivano quanto meno sette giorni di navigazione per raggiungerla.

NELLO STESSO PERIODO, nell’isola indonesiana di Sulawesi, qualcuno dipinse un cinghiale sulle pareti di una grotta. Trascorsi quindi 15mila anni, i pescatori della Nuova Britannia e della Nuova Irlanda sapevano ormai catturare tonni in un tratto di mare lontano dalla costa almeno 150 chilometri.
E l’America, chi l’ha scoperta? Le analisi genetiche hanno stabilito che la separazione tra le popolazioni stanziate in Siberia e quelle successivamente presenti in Nord America avvenne tra 24.900 e 18.400 anni fa. Poi i ghiacci si sciolsero e ci rendemmo conto di quanto dipendiamo dai cambiamenti climatici. Le masse terrestri di Sunda e Sahul, al largo dell’Indonesia, finirono sotto le acque. L’istmo di Bering sparì.
Soltanto quando il clima si stabilizzò, al termine dell’ultima glaciazione e dopo l’intermezzo del cosiddetto Dryas recente – il periodo al centro della docuserie complottista Ancient Apocalypse, distribuita da Netflix – comparve l’agricoltura. Le tracce archeologiche, secondo gli autori, sono chiare: con l’avvento del neolitico, la crescita demografica si impennò, eppure gli standard sanitari e l’aspettativa di vita diminuirono.

INTERESSANTI, nell’abbrivio di quel progredire senza freni che avrebbe portato alla sovrappopolazione e all’industrializzazione, le pagine dedicate a due siti anatolici. Göbekli Tepe, dove una popolazione non sedentaria nel 9600 a.C. ricavò dalla roccia quattro strutture circolari, incidendo sui pilastri animali e simboli religiosi, e Çatalhöyük, che due millenni dopo testimonia la prepotente comparsa delle classi sociali. Una stratificazione che pare farsi netta in seguito all’introduzione dell’aratro, intorno al 2600 a.C., quando in Europa si prese a inumare qualcuno più potente degli altri con un ricco corredo funerario: è «l’unico antenato maschile, il fondamento dell’autorità sulla proprietà», scrivono Fagan e Durrani.

È COSÌ UN RESPIRO di sollievo quello offerto dallo studio dei dati materiali di Harappa e Mohenjo-daro, città che prosperarono lungo l’Indo tra il 2600 e il 1900 a.C. Le uniche a non aver tramandato segni di attività belliche. Né di templi.
Terminata la lettura, si ha la sensazione che l’archeologia possa rivelarsi più democratica della storia, per costituzione attratta dalle individualità di spicco. Lo scavo stratigrafico e lo studio antropologico dei resti scheletrici sono in grado di far luce sulle società antiche fino a quadri di un realismo altrimenti irraggiungibile.

OGGI SAPPIAMO TUTTO dell’Arciere di Amesbury, sepolto a circa 5 km da Stonehenge, e di Ötzi. Sono persone comuni, che la tradizione avrebbe relegato all’anonimato. Oppure ne avrebbe travisato l’essenza. Nel 1880, uno scheletro di epoca vichinga fu rinvenuto a Birka, in Svezia, insieme a una spada, una lancia e due cavalli. Parve scontato considerarlo uomo. Solo nel 2017 il Dna ha dimostrato che si trattava di una donna.