Quello del passaggio dalle droghe leggere alle pesanti è uno degli argomenti più utilizzati dai proibizionisti italiani. L’ultimo a rispolverato, nelle settimane scorse, è stato l’ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani: «Quelli che fanno uso di droghe pesanti hanno iniziato facendosi una canna». Così commentando la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione che decriminalizza la coltivazione di cannabis per uso personale.

Quello della «cannabis porta di tutte le droghe» è un argomento che sopravvive agli anni, attraversa le stagioni, è rivendicato da politici di ogni colore, conquista titoli nelle maggiori testate giornalistiche, e la sua diffusione – nei bar, nelle parrocchie, nelle file alle poste – lo ha reso luogo comune. E perciò, verità inconfutata. Per questo vale la pena provare a prenderlo sul serio e ribattervi, anche se è forte la tentazione di liquidarlo con una battuta (persino uno come Roberto Burioni ci è caduto: «Tutti quelli che hanno infilzato il cognato con un serramanico hanno iniziato tagliando il filetto con un coltello da cucina»).

Dunque, cosa c’è di vero – se c’è – nell’affermazione che chi usa «cocaina eroina o acidi» ha cominciato con la cannabis? Come nasce questa convinzione? Quante persone coinvolgerebbe questo fenomeno? E che cosa si può fare per affrontarlo?

Partiamo dai dati. Secondo l’ultima relazione del Dipartimento per le politiche antidroga, le persone in cura presso i servizi pubblici per le dipendenze patologiche (SerD) consumano soprattutto eroina e cocaina/crack, e poi cannabinoidi e alcool. Si tratta, per la gran parte di persone già conosciute dai servizi negli anni precedenti: solo il 14% sono nuovi utenti. Ciò che è curioso è che gli utenti trattati per uso di oppiacei risultano in costante diminuzione negli ultimi vent’anni, mentre aumentano quelli che consumano cocaina/crack e cannabinoidi. Inoltre, ciò che accomuna quasi tutti i consumatori problematici è il cosiddetto policonsumo: ovvero il fatto di associare all’utilizzo di una sostanza quello di altre sostanze psicotrope e/o dell’alcol. I dati che riguardano il fenomeno del consumo delle droghe più di altri meritano di essere disaggregati e guardati molto da vicino. Ci si dovrebbe chiedere, ad esempio, chi sono queste persone? Soprattutto per quanto riguarda i cannabinoidi si tratta di migranti che hanno visto fallire il proprio progetto e vivono in situazioni di grande marginalità. La letteratura scientifica sull’argomento è scarsa, ma basta ascoltare quello che dicono gli operatori delle unità di strada per farsi un’idea di come si tratti di una costante.

E ancora, dovremmo andare a vedere cosa succede nelle carceri dove oltre un quarto dell’intera popolazione carceraria (27,9%) è tossicodipendente. Ma tornando alla nostra questione, possiamo dire che da un punto di vista scientifico non vi è alcuno studio che dimostri come la cannabis possa fare da “ponte” al consumo di altre sostanze.

Quello che è incontrovertibile, invece, è che il mercato nero mette in contatto le persone con le sostanze più disparate. Questa constatazione banale ha portato altri governi ad adottare misure diverse da quelle proibizioniste. I coffee shop olandesi nascono così: in un regime di tolleranza che ha il preciso scopo di tenere separato chi consuma cannabis dallo spaccio. E il premier canadese Justin Trudeau ha sostenuto la legalizzazione spiegando di voler tenere i giovani lontani dal contatto con la criminalità.

Ecco, quello che è necessario nel nostro paese è che il dibattito su questo tema venga ricondotto in una dimensione di confronto scientifico e razionale. Un primo, semplicissimo, passo dovrebbe essere quello di discutere in Aula la relazione del Dipartimento per le politiche antidroga, invece di lasciarla sempre lettera morta.

*direzione di Radicali italiani