Cento anni fa, più o meno: la Grande Guerra si può oggi, forse, anche introdurre così, con cioè un intervallo di tempo che segna, volenti o nolenti, un passaggio/spostamento di attenzione dalle strategie della memoria alla scrittura (in senso lato) della storia, nella misura in cui lo spazio pubblico che teoricamente permette la celebrazione dell’anniversario si fa possibilità attraverso cui ripensare fonti e usi di memoria relativi alla storiografia del conflitto. Da noi, in Italia, esempi recenti e di vario genere per fortuna non mancano. Uno su tutti qui merita la menzione e – assieme – una riflessione. Si tratta di un qualcosa di classico in questi casi: una pubblicazione. Qualcosa che, di riflesso, rimanda alla sua origine: cioè ad un archivio importantissimo. La pubblicazione in questione è l’ultimo numero – il 28 – della rivista «Primapersona» (Forum Editrice, 8 euro), dedicato – appunto – alla Prima guerra mondiale. L’archivio è invece l’archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, Arezzo: municipalità ribattezzata oramai “Città del diario” – ne ha parlato recentemente anche il «New York Times» – e sede del Premio Pieve (sito: www.archiviodiari.org). Un archivio per cui la rivista è, dal 1998, spazio di pubblicazione e diffusione dei diari raccolti nel tempo (oltre che di commenti e riflessioni di studiosi di volta in volta invitati a collaborare in relazione ai temi trattati).

L’alfabeto e le parole chiave

Un ordine, prima di tutto. Quantomeno per far “passare” qualcosa di radicale da raccontare come la guerra, come anche – quindi – il ’15-’18 italiano. Nell’introduzione del numero di «Primapersona», la direttrice della rivista, Anna Iuso – antropologa, professoressa associata alla Sapienza, fra i primi e più importanti studiosi europei a dedicarsi alle relazioni fra autobiografia, scrittura e memoria sociale, co-fondatrice della medesima rivista – spiega bene come nasce la struttura del numero, qualcosa di particolare rispetto al passato, dal momento che si tratta di un numero interamente occupato dai brani dei diari selezionati (a parte la sezione finale dedicata alle recensioni di libri). Sono brani associati a determinate parole.

Il testo in questione della Iuso merita una citazione: «L’idea dell’alfabeto è sorta in maniera abbastanza fulminea: un evento così pervasivo come la guerra sicuramente investe tutti i campi dell’esperienza, dunque un po’ tutto il dicibile, dunque tutto l’alfabeto. L’operazione immaginata, e da noi redazione realizzata, è stata la seguente: se ci fossimo trovati con un folto gruppo di soldati e avessimo detto “A come… ?”, cosa avrebbero risposto? La nostra redazione, composta per la stragrande maggioranza di giovani, ha cercato di immedesimarsi con questi coetanei di cento anni fa, dando delle risposte che poi avremmo “verificato” nei diari, per capire se quelle parole fossero veramente fra quelle utilizzate per raccontare il conflitto, e quindi se fossero idee, concetti, esperienze vissute dai nostri soldati.»

Dato quindi un ordine come quello alfabetico, il passo successivo è stato quello relativo alla scelta delle parole chiave. Interrogata in merito, la stessa Iuso spiega: «Immaginiamo una parola oppure andiamo per parole chiave. Sappiamo che un tale diarista parla di questa cosa, è stato colpito – per esempio – da una crocerossina. Allora noi ci ricordiamo di lui oppure abbiamo una parola chiave nel database. Da qui andiamo a ricercare la quasi totalità del testo a meno che non ci sia qualcuno di noi che lo ricordi esattamente. Il che è abbastanza ricorrente, perché ognuno di noi viene colpito nella lettura dei testi da dati elementi (al riguardo io, invece, mi ricordavo di alcuni diari di crocerossine in cui paradossalmente non c’era la parola “crocerossina” nelle parole chiave). Quindi si torna al diario e si vede se la parola è anzitutto una parola centrale. Questo è un secondo elemento. La parola non deve essere semplicemente presente, ma deve avere avuto un senso particolare per il diarista. Quindi – ammettiamo – una crocerossina che abbia svolto un ruolo abbastanza importante. C’è dunque l’intensità dell’esperienza legata a questo termine e poi la capacità di narrare, perché – evidentemente – anche questo conta. Perché più o meno, per quanto l’elemento grammaticale e formale possa essere scorretto, un tale aspetto alla fine diventa per noi insignificante. Quello che è importante è che il diarista riesca a trasmettere l’esperienza.»

La logica fa poi si che, dato l’indice, molte parole chiave si ritrovino comunque in più di un brano, con diversa e significativa rappresentatività, e cioè tanto in eccesso quanto in difetto.

«Se considerate in relazione alle aspettative», come la stessa Iuso puntualizza.

Le parole della guerra e l’archivio dei diari

L’alfabeto della Prima guerra mondiale di questo gran bel numero di «Primapersona» presenta parole chiave come, per esempio, “Alpini”, “Austriaci”, “Bersaglieri”, “Caporetto”, “Carso”, “Logoramento”, “Trincea”, “Vittorio Veneto”. Sono termini i cui echi immediatamente rimandano al conflitto in questione, senza dubbio. Ce ne sono però ovviamente altri la cui presenza qui rende sicuramente più estesa quella che si potrebbe definire come la ricognizione relativa all’esperienza della guerra – basti pensare a “Amicizia”, “Civili”, oppure a “Madre” e “Padre” – e altri ancora, il cui essere relativamente poco noti al grande pubblico e la cui alta rappresentatività riscontrata nei brani dei diari scelti diventano fattori tali da mostrarne l’importanza specifica nella psicologia degli stessi diaristi, e dunque nelle loro memorie relative a quanto accaduto, con tutto quel che ne può conseguire. Si pensi, in merito, al termine “Shrapnel”, cioè «i letali proiettili carichi di sfere di piombo» dell’esercito austriaco: qui, disseminato nei racconti, un qualcosa che può facilmente fungere come una sorta di correlativo oggettivo del nemico.

Ciò detto, all’origine delle parole ci sono ovviamente le voci di chi racconta, la polifonia di storie e la loro conseguente coesione in una Storia in “prima persona”. I nostri protagonisti sono soggetti diversi: per sesso, carattere, estrazione sociale, ruolo nel contesto bellico. E diversi – logicamente – sono i loro modi di vivere il conflitto (modi che vengono fuori direttamente o indirettamente nelle loro lettere, nelle loro riflessioni, e perfino nelle descrizioni testuali più apparentemente lontane dall’azione). Diverse – anche – sono le loro lingue: qualcosa che qui ha sicuramente meno a che fare con questioni stilistiche e più, se si vuole, con la possibilità di utilizzare tale aspetto come ulteriore prova per una più precisa analisi socio-culturale. Tutto questo – sembra poter essere lecito dire – restituisce una buona fotografia di quella che si potrebbe dire una “storia del basso” della Prima guerra mondiale italiana. Ricca, leggibile tra le righe come occasione di rilevamento di informazioni e di verifica di interpretazioni. Allo stesso tempo la natura soggettiva e particolare dei testi e il loro montaggio in relazione al contesto possono suggerire di leggere e pensare l’insieme dei brani come una sorta di circolazione di una narrazione in grado di articolarsi tanto al passato quanto al presente, secondo schemi diversi e tuttavia complementari. Schemi individuabili anche in altri campi, sia chiaro – al riguardo, non può non venire in mente la “trilogia della guerra” dei cineasti Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi – ma soprattutto schemi che rimandano alle potenzialità dell’archivio come luogo di produzione di una storia culturale e, nello specifico, a quelle di un archivio come quello di Pieve Santo Stefano. Fondato nel 1984 dal giornalista e scrittore Saverio Tutino (1923-2011), oggi attivo nella forma di Fondazione Onlus e accompagnato, come detto, da iniziative meritorie a sua promozione. Come, appunto, «Primapersona»: rivista di cui lo stesso Tutino è stato fondatore e direttore e che con questo ultimo numero ci “ricorda” una Italia di cui non si deve fare a meno.