«Perdonatemi, ma la vita mi è divenuta insopportabile ». A 54 anni, Dalida si uccide, nella notte tra il 2 e 3 maggio 1987 : 35 anni fa. Al suo pubblico, lascia la lettera che aveva già scritto 20 anni prima, al primo tentativo di suicidio, un mese dopo quello d Luigi Tenco, « l’uomo della mia vita », al Festival di Sanremo. «Ciao ciao Dalida » titoleranno i giornali, facendo eco a Ciao amore ciao, la canzone che lei e Tenco avevano interpretato a Sanremo, senza portarla al successo sperato nel miserando agone canzonettistico dell’epoca in Italia. Questa è l’ultima intervista di Dalida, rimasta inedita, rilasciata tra Montreal e Parigi, tra il FFM-Festival des Films du Monde del 1986, dove aveva presentato con Josef Chahine Le sixième jour di cui era protagonista, e la deplorevole trasmissione tv Test, ravvivata dalla capigliatura bionda e dalla sua gestualità simpaticamente italiana.

Non era triste, Dalida, in nessuna delle due occasioni. Era serena, felice di comunicare con gli altri, sempre sorridente, nascondendo dentro di sé le angosce d’una vita, forse illudendosi di cancellarle con la sua inestinguibile solarità. Non era triste, Dalida. Ma si preparava già a morire. A fine trasmissione, canta la canzone della sua vita, e della sua morte, Mourir sur scène (Morire in scena). Dove si rivolge alla morte, alludendo al mancato suicidio del 1967: « Moi, qui ai tout choisi dans ma vie/ Je veux choisir ma mort aussi» (Io che ho scelto tutto nella mia vita/voglio scegliere anche come morire). «Je veux mourir sur scène, c’est là où je suis née », e il pubblico tv scandisce con i battimani la canzone : « Voglio morire in scena, è lì che sono nata ». Da del tu alla morte: «Viens, mais ne viens pas quand je suis seule (Vieni, ma non venire quando son sola) ». Morirà sola, nel sua appartamento a Montmartre, all’11 bis di rue d’Orchampt, facendo credere agli amici che sarebbe uscita per una serata di festa: cocktail d’un centinaio di barbiturici e whisky. E la lettera al pubblico: «Pardonnez-moi, la vie m’est insupportable».

Ecco l’intervista – da cui abbiamo espunto un paio di passaggi troppo personali – che cominciava con una domanda purtroppo profetica: Come passerebbe una serata, finalmente libera? In teatro, al cinema? «Sicuramente in teatro, magari per assistere a una comédie musicale, il genere che prediligo». Forse in quel Théâtre Mogador dove, la sera del suicidio, sarebbe dovuta recarsi per Cabaret di Jérôme Savary, con cena successiva insieme a François Naudy, che però non la chiamò.

Dalida, sempre più internazionale. Ma sempre legata all’Egitto?
Certo. È il Paese dove sono nata, a Choubra, sobborgo del Cairo, dove ho studiato in una scuola di religiose e ho fatto i miei primi passi sulla scena al suo club di teatro. Il Cairo: divenuto nel 1986 set d’un grande film, Le sixième jour – cui ho preso parte anche come cantante – di un grande regista, Josef Chahine, oggi il cineasta più grande del Medioriente.

L’Egitto è Paese di sole. Che cos’è per lei il sole?
Tutto. Il sole è la mia salute, il mio medico. È anche il mio sarto. Il pubblico si attende da me, sempre di più, abiti lunghi e scintillanti. Paillettes dappertutto, come nell’abito nero e fasciato della trasmissione di stasera, Test, che è tutto un barbaglio di fiori di paillettes. La luce è il mio sole, che mi veste, sempre.

In «Test», alla sua canzone «Le sixième jour» è seguita «Le venitien de levallois», su immigrazione e integrazione. Temi cui è sempre sensibile?
Certo, anche perché non riguardano solo me, ma, più o meno direttamente, tutti. Come nel mio caso: cantante e attrice italiana, naturalizzata francese, figlia di genitori italiani trasferitisi in Egitto, originari di Serrastretta in Calabria. Mia madre, Filomena d’Alba, morta a 67 anni, faceva la sarta. Il mio vero nome, come si sa, è Iolanda Cristina Gigliotti, nata il 17 gennaio 1933, Capricorno.

Parla di sé con un pizzico di humor: distanza critica o amarezza?
Purtroppo, non ho molto sense of humor: che testimonia sempre di un’intelligenza brillante (Risata). Forse, perché prendo sempre tutto troppo sul serio: tutto, tranne me stessa. E se uno si prende gioco di me, mi fa piacere: soprattutto se ha talento, altrimenti…mmh… Diciamo: humor all’80 per cento. Dipende dalle volte, dalla situazione: da come mi alzo al mattino. In ogni caso, cerco sempre più di farne il mio stato d’animo abituale. È vero che, con gli anni (risata), sto diventando sempre più saggia …

Le mani sono essenziali nelle sue interpretazioni. Coprono il viso, sfiorano le labbra. Mani che additano un destino. Crede nelle chiromanti?
No, non ci credo. Non credo proprio che il destino di qualcuno sia scritto da qualche parte. Il destino, uno se lo costruisce, da solo. Come ho fatto io. Già a 15 anni sapevo che cosa avrei fatto ‘da grande’. Mio padre, Pietro Gigliotti, morto a 41 anni nel 1945, era primo violino all’Opéra du Caire: lo spiavo dietro le quinte durante le prove. Il mio destino, me lo son fabbricato lì : sarebbe stato lo spettacolo, la scena, la voglia di riuscire. Ho partecipato a concorsi di bellezza negli anni 50 e girato qualche filmetto al Cairo. Ero fan di Rita Hayworth, volevo diventare attrice come lei. E via con i corsi di teatro e altri concorsi di bellezza. Speravo nel cinema, sono divenuta cantante. Prima, interprete esotica in Italia, poi, finalmente, dal 1954, cantante francese, di cittadinanza francese. E, nel 1956, il mio primo grande successo: Bambino. Un tuffo nel futuro.

Ma da qualche parte abbiam sentito che nell’anno 2000 dirà addio alle scene…
Ah, è nel disco del 1983, Les P’tits Mots, un album con tre canzoni autobiografiche: in Bravo, immagino infatti che nel 2000 sarò dimenticata dal mio pubblico che dovrò scoprirmi, allo specchio, vecchia! Ma scherziamo? (Sonora risata). Non era una canzone: era una boutade! L’asserzione di ciò che non sarà.

Essere o non essere. Sognare, forse?
I sogni sono la nostra infanzia che torna, che riappare nel nostro inconscio. Credo molto nei sogni: quando sono belli, cerco di interpretarli. Se da svegli si riesce a rientrare in un sogno, si può arrivare a conoscere sé stessi. Esperienza unica – un gioco di scambio tra conscio e inconscio –, l’ho praticata, sottoponendomi a diverse sedute di psicoanalisi. Per questo, non credo ai destini imposti dall’alto: credo alla realtà delle cose. Credo alla mia musica: a quel che ho fatto, non a quel che ancora non ho fatto. E credo ci si debba fermare, di tanto in tanto, a recitare tanti mea culpa mea culpa…