La premessa è quella di sempre, cioè che guarda le beghe della politica nostrana da lontano, che il tema della «salute della democrazia tra crisi dei partiti e crescita dei sovranismi» su cui è chiamato a dibattere è troppo epocale e cruciale per precipitare subito nel cortile delle nostre scissioni recenti. Ed è vero che Massimo D’Alema alla festa di Art.1 alla Città dell’Altra economia di Roma è stato molto presente – dalla stretta di mano al presidente Conte fino a stasera, quando la concluderà con un fuori format, un omaggio a Camilleri con gli scrittori De Giovanni e De Cataldo – ma è stato altrettanto attento a non commentare l’attualità politica. Ai cronisti ha opposto silenzio sia su Matteo Renzi che sul governo giallorosso, limitandosi a un «non è il governo più a sinistra che ha avuto l’Italia» (la palma spetta a quelli di centrosinistra cui ha partecipato, o che ha guidato, fra il ’96 e il 2001).

Ma venerdì scorso, in tarda serata, era fatale che D’Alema si lasciasse tentare, davanti a un Michele Santoro della maturità che, abbandonati i panni urticanti dell’amico della esecrata «società civile», dei vecchi girotondi e dei nuovi grillini, insistentemente usava il «noi» parlando della sinistra e soprattutto riferendosi a D’Alema, uno di quei dirigenti con cui «non vinceremo mai», secondo il grido di Nanni Moretti del febbraio 2002. Sono passati vent’anni, oggi il Pd figlio dei Ds (e di altri) è finito improvvisamente al governo con i 5 stelle, figli dei girotondini. Insieme a Art.1, il partito che D’Alema ha fondato (con altri) da una scissione del Pd.

Andiamo con ordine. Il Pd «ha fallito», spiega D’Alema a Monica Giandotti, giornalista di Raitre e del Tg3, conduttrice estiva di Agorà, a cui è toccata la benedizione – per il paese forse, per lo share di sicuro – di una crisi di governo estiva, unicum nella storia della Repubblica. «L’idea del grande partito contenitore all’americana qui non funziona. Il centrosinistra sarebbe stato molto più forte di fronte all’onda d’urto della destra se avessimo ancora due partiti forti, uno di matrice socialista e uno di ispirazione cristiana. L’idea, pur generosa, del Pd, lo dico autocriticamente, non ha funzionato perché non aveva una radice storica e identitaria». Quindi non lo rifarebbe? «No», è la risposta secca. «Sono stato criticato in passato per la richiesta del trattino nella coalizione di centrosinistra, invece andava difeso, perché non esiste l’identità di centrosinistra. L’idea della politica post ideologica, sbagliando, l’abbiamo messa in circolazione noi, non i 5 Stelle, che ne sono una derivazione». Poi si arriva a Renzi che si fa il nuovo partito: «Non dobbiamo polemizzare. Auguri. Noi abbiamo il problema di costruire una sinistra nuova».

Qui è il punto: «Il governo gialloverde è fallito perché era fallimentare lo schema secondo il quale non c’è più la destra e la sinistra. Stando al governo con la Lega i 5 Stelle si sono accorti che c’era ancora la destra. La sfida di oggi è dimostrare a M5s che esiste ancora anche la sinistra con la sua lotta per la giustizia sociale e contro le disuguaglianze». La destra è cambiata: la Lega di Bossi, quella che nel ’95 D’Alema definiva «una costola della sinistra», era antifascista, tant’è che in quell’anno il senatùr, che era al governo con Berlusconi, sfilò nel famoso corteo del 25 aprile a Milano. Poi fece cadere l’esecutivo, la storia è nota. Salvini invece «ha costruito una destra con una venatura neofascista».

In questa mancata analisi sta l’errore «grave» del Pd all’indomani del voto del marzo 2018, quando, su spinta renziana, arraffò il pacchetto dei popcorn «Salvini non vinse le elezioni ma il dopo. Questo governo che nasce ora è apparso di difesa contro Salvini. Un anno fa poteva nascere contro nessuno perché quel fenomeno era al 17%, non aveva le dimensioni attuali, dato al 34%». Il Pd di allora negava che i 5 stelle nascevano come una costola della sinistra. E invece D’Alema: «Nel messaggio semplificato dei 5 Stelle molti elettori della sinistra avevano colto il messaggio di “vogliamo rappresentare i poveri, il Sud e la lotta contro i privilegi”» a differenza di un Pd il cui messaggio era – ed è, ancora oggi – «va tutto bene». Ma la politica è «creazione», dice, quindi se oggi «il problema della sinistra è ritrovare questo popolo» tornando a difendere il lavoro, l’occasione creativa è proprio il governo che ha tolto la sinistra dalla «dolorosa marginalità». E potrebbe – ma a patto di abbandonare i propositi proporzionalisti, cari allo stesso D’Alema – «portare a una prospettiva di collaborazione di medio-lungo periodo», per un nuovo bipolarismo, «da una parte sinistra-M5S, dall’altra la destra di Salvini». Chi sarà il leader dell’alleanza democratica? Bisognerà fare i conti con «le resistenze dei 5 stelle», avverte. Ma anche, aggiungiamo, con l’immobilismo del Pd. Per la cronaca, in questa festa a parlare da leader politico è venuto il presidente Conte, mentre il segretario Zingaretti ha disertato, spaventato dalle battutacce di Renzi. Ma questa è un’altra storia. O forse no: perché D’Alema auspica una «fase costituente» a sinistra, che evidentemente senza il Pd di Zingaretti non esiste. Perché «per un materialista la quantità determina la qualità». E il Pd resta il principale partito del campo del centrosinistra, senza il quale il futuribile nuovo bipolarismo, ma persino il vecchio frontismo, andrebbero a farsi benedire.