Sebbene sia di moda invadere lo spazio del romanzo con storie di ordinaria quotidianità, minuziosamente prelevate dalla biografia dell’autore per venire innalzate alla dignità di oggetto artistico, non era ancora successo che la voce narrante, più o meno dichiaratamente coincidente con chi firma l’opera, rinunciasse a imporre la propria presenza sulla scena dei fatti. L’Io di Rachel Cusk, invece, quell’Io al quale solo molto avanti nei suoi testi l’autrice consegna un nome diverso dal suo, sta acquattato dietro la pagina mentre raccoglie parola per parola il racconto, a volte logorroico, dei molti uomini e donne incrociati nei suoi spostamenti, tra cambi di residenza e partecipazione a festival letterari. Se interviene, è per ricordare al lettore – due o tre parole non di più – che lei è ancora lì. Più che altro allo scopo di spezzare la continuità del bavardage, o per richiamarsi a un principio di realtà romanzesca, mentre il suo orecchio sembra incamerare senza il filtro del giudizio tutto quanto ascolta, restandosene zitta. Le rare volte in cui questa laconica voce narrante irrompe sulla scena è suo malgrado, spesso per rispondere alle telefonate dei figli, affidati al padre dal quale si è separata, e che attende di riprendere con sé, una volta terminati i lavori della sua nuova casa londinese, in via di ristrutturazione.

Una tensione strisciante e mai esplicitata si sprigiona dai piccoli conflitti di volontà che oppongono la protagonista dei tre ultimi romanzi di Rachel Cusk ai suoi interlocutori: tra le pagine di Transiti, il secondo tassello della trilogia appena tradotto da Anna Nadotti per Einaudi Stile libero (pp. 195, € 17,00) l’agente immobiliare vorrebbe scoraggiarla dal comprare la casa malandata che i suoi pochi soldi le consentono, il parrucchiere pretenderebbe di dissuaderla dal tingersi i capelli, i vicini la insultano per indurla a interrompere la rumorosa ristrutturazione, e il muratore albanese li blandisce per guadagnarli alla causa della sua datrice di lavoro, ma al prezzo di farla passare per una negriera.

Sia il primo romanzo della trilogia, Resoconto (uscito da Einaudi l’anno scorso), che l’ultimo Skudos (non ancora tradotto) si aprono con le chiacchiere di un viaggiatore, impudicamente impegnato, per tutta la durata del volo, a esporre i suoi problemi perlopiù famigliari. Una volta approdata al festival letterario di turno, la narratrice si nasconde dietro il protagonismo dei vari addetti all’accoglienza e all’ufficio stampa che, tutti indistintamente, colgono l’occasione per sbrodolarle addosso tranche de vie nelle quali si sentono invischiati. C’è da chiedersi se non ci si trovi di fronte a una non si sa quanto consapevole introiezione, molto elegantemente restituita, dell’egotico chiacchiericcio cui ci hanno assuefatto i social media. Peraltro, quella che in campo letterario appare come una sorprendente novità, nell’arte contemporanea era già stata descritta da Arthur Danto come «la trasfigurazione del banale»: se siamo indotti a leggere come oggetti romanzeschi i racconti ordinari di persone prese di peso dalla realtà, è perché li troviamo già inscritti nella convenzione di una cornice fatta di pagine graficamente impostate, numerate e sovrastate da un titolo, investite dunque di una intenzionalità autoriale che sancisce il loro passaggio dal regno delle mere cose a quello del significato e sollecita, perciò, una interpretazione.

Cominciamo da qui il nostro colloquio con Rachel Cusk, di passaggio a Roma la scorsa settimana, dove ha partecipato al Festival letterario Libri Come, un appuntamento simile a quelli che descrive nei suoi libri, e che forse andrà ad aggiungersi ai frammenti di esperienza in attesa di venire catapultati nella sua prossima opera di finzione.
I materiali capillarmente inventariati dalla realtà e da lei proiettati nella cornice della sua trilogia mi riportano alla mente la prima delle domande poste da Arthur Danto per indagare lo statuto dell’opera d’arte: «Che cosa distingue – si chiede – un oggetto che è discontinuo con la realtà… da uno che è invece un nuovo pezzo di realtà?» «L’arte – scrive – è un genere di cose la cui esistenza dipende da teorie». E la natura di una teoria dell’arte – dice – «è una cosa così potente da staccare gli oggetti dal mondo reale e renderli parte di un modo diverso, un mondo dell’arte, un mondo di cose interpretate». Non le sembra che queste parole siano particolarmente adatte a illustrare la sua idea di romanzo?
Sì, è una riflessione che mi si attaglia, ma credo valga non solo per i miei libri. Da quando, in una fase già molto precoce della mia carriera di scrittrice, sono diventata più consapevole della distinzione tra forma e contenuto, ho perso ogni interesse per l’esemplarità dell’oggetto, per la sua unicità: questa speciale bottiglia non mi interessa più di quanto non mi interessi il genere bottiglie. I mezzi usati dall’arte per esprimere la realtà hanno la caratteristica di sconvolgere la nostra percezione soggettiva, perché quel che si verifica è una sorta di reazione chimica derivata dal riversare qualcosa che non fa parte della nostra esperienza in qualcos’altro che invece ci appartiene. E questa reazione fa riverberare reciprocamente i riflessi dei due contesti in gioco.

Facciamo un esempio: lei descrive in «Transiti» due scrittori con i quali ha partecipato a un festival letterario e di uno in particolare racconta la performance, riproducendola tale e quale a come l’ha ascoltata. Ora, come qualificherebbe la discontinuità tra questi due frammenti di realtà, da una parte lo scrittore effettivamente esistente, che si è comportato esattamente come lei lo descrive, e dall’altra lo scrittore che, trasferito nel suo libro, si è trasformato in un oggetto artistico?
È difficile trovare la giusta risposta, ma direi che la forma detta ciò che si riverserà o meno nel libro. Naturalmente, la si può sbagliare, e a me è successo nell’ultimo volume della trilogia, Kudos: ero già arrivata a circa metà della stesura e mi sono resa conto che la struttura non funzionava, perciò ho buttato tutto e l’ho riscritto, in realtà usando la stessa forma ma non prima di averne modificato alcune condizioni. Una volta che hai trovato la forma, la puoi riempire con qualsiasi contenuto e non saranno questi a dettare i condizionamenti del libro. Così, lo scrittore di cui lei parla è lì per restituire un punto di vista diverso da quello della narratrice. Il criterio che uso per giudicare la legittimità dei contenuti di cui scrivo consiste nel domandarmi se ciò di cui parlo sia riconducibile a altre realtà equivalenti, a altre vite diverse dalla mia. Nel caso dello scrittore la mia risposta è stata sì: per un adulto è prassi comune ritrovarsi impegnato in una determinata professione, che ha specifiche coordinate espressive, adotta un linguaggio particolare, implica una identità sessuale, comporta un coinvolgimento personale. Prima di legittimare un certo materiale a entrare in un mio libro, ogni volta mi chiedo: sono di fronte a una regola o a una eccezione? Le eccezioni non mi interessano. E anche se l’esempio di uno scrittore che partecipa a un festival può sembrare una esperienza rara, io lo uso non perché gli conferisca una speciale importanza, ma perché funziona come un esempio comportamentale estendibile a altri frammenti di realtà.

Una delle scene meglio riuscite di «Transiti» ha per protagonista un parrucchiere che si vanta di avere abbandonato ogni mondanità. Nel descrivere l’ultima festa di capodanno dice di avere avvertito «la sensazione che nella stanza ci fosse qualcosa di enorme che tutti gli altri fingevano di non vedere». Che cos’era questa cosa, domanda la voce narrante? «Paura», dice lui. È un elemento, questo, molto presente nella sua trilogia. Che ruolo gli assegna?
Alla base di quanto ho scritto in questa trilogia c’è l’ipotesi che non resti più niente da cui essere spaventati: ciò che temi è già successo. La mia ambizione era tentare di mettere a punto una prosa che facesse a meno della suspense, perché ciò che la motiva sta alle spalle del libro e ne costituisce semmai il preludio. Io mi muovo nel dopo-paura, in un panorama che è già stato trasformato dal trauma, e che ora si presenta placato, silenzioso, vuoto.

Qualche anno fa, un critico letterario, Daniele Giglioli, ha scritto un saggio la cui tesi principale era che gli scrittori italiani della generazione alla quale anche lei appartiene sembrano avere in comune la produzione di romanzi che portano le tracce di un trauma, sebbene l’epoca cui appartengono non abbia fornito loro alcuna esperienza traumatica. Crede che si possa dire anche di lei?
Io mi sento riguardata da un trauma abbastanza familiare al panorama psicologico della mezza età: i miei vari personaggi femminili percepiscono questa crisi come un senso di perdita della realtà, lo vivono come un crollo di fiducia e insieme come una presa di coscienza del fatto che la vita è assurda e tutto ciò che noi siamo indotti a ritenere reale non è che il riflesso di scelte fatte da altri, il riverbero delle loro illusioni sulla vita. Ma ciò che più mi interessa è la difficoltà che le donne incontrano nel tentare in vari modi di uscire dalle identità parziali che vengono loro calate addosso: casalinga, moglie, madre, e così via. Sono queste le questioni più urgenti che riguardano le donne arrivate a metà della loro vita. Ne parlo in modo diverso in tutti i libri della trilogia, dove cerco appunto di indagare queste aree così difficili, anche perché di solito sottoposte a una qualche forma di dissimulazione, nascoste da quella a me pare una autoillusione, una forma di autoinganno. Tutte queste azioni fuorvianti che le donne infliggono a se stesse sono tipiche della femminilità, ed perciò che con i miei libri cerco di passarci attraverso. Le osservazioni di Giglioli sono interessanti, ma lui è un uomo, parliamo di traumi diversi. Quelli che interessano me cerco di evidenziarli raccontandoli realisticamente, senza isteria né melodrammi.

In «Kudos» entra in scena una giornalista che parla tutto il tempo di sé sebbene sia lì per intervistare la narratrice. Quando lei la vede, ricorda di averla già incontrata e di esserne rimasta impressionata, perché il racconto che a suo tempo le fece della sua vita trasmetteva una totale «mancanza di suspense». Questa osservazione suona strana in un suo libro, perché suspense e mistero sembrerebbero non interessarla affatto.
Infatti non mi interessano. Quando prima dicevo che ho voluto scrivere un libro emancipato dalla paura è a questo che alludevo, perché per me suspense e terrore sono due aspetti della stessa questione. A un certo punto mi sono ritrovata a pensare che, di questi tempi, l’uso corrente della narrazione confida in larghissima misura su questi elementi, e di contro mi è venuto da chiedermi: quanta parte della nostra vita reale è basata sulla suspense? Da allora mi sono applicata a cercarne degli esempi in quanto scrivo io stessa, poi nei libri degli altri, poi sono passata alla letteratura critica per andare a vedere dov’è che potessi trovare un angolino libero da questa sorta di coazione alla suspense, e mi è sembrato che da quell’angolino nascosto si potesse tirare fuori molto.

Certamente non sarà casuale il fatto che sia in «Resoconto» che in «Transiti» si arriva molto tardi a sapere che la voce narrante, protagonista della trilogia, si chiama Faye. Come mai ha scelto di aspettare tanto prima di darle un nome, e perché a un certo punto decide di darglielo visto che fino a tre quarti del libro ne ha fatto a meno?
Non so se sia stata precisamente una scelta, so però che il progetto di scrittura cominciato con Outline ruota intorno alla rimozione dal testo di ogni conoscenza pregressa: il libro sa, ma non rivela come ha fatto a sapere. Dato questo presupposto, cessa di essere moralmente interpellabile. Se ci vuole tanto tempo perché quel che c’è da conoscere diventi visibile è perché il lettore viene trattato come un passante, che incontra una persona e arriva a conoscerne il nome non prima di averlo sentito pronunciare a alta voce. Mi sembrava realistico procedere così, anche se non avevo un piano preciso. Di sicuro, volevo produrre un artefatto che esprimesse una perdita e potevo farlo solo rappresentando questa perdita tramite una presenza, come nel rapporto tra il negativo e il positivo di una fotografia.

Lei è arrivata solo gradatamente, non prima di mettere insieme questa trilogia, a cambiare il suo modo di scrivere, innanzi tutto rinunciando a un intreccio e popolando le sue pagine di persone che sembrano la negazione stessa del personaggio romanzesco. Come è avvenuto questo passaggio?
Ci sono arrivata tramite un processo che a me è sembrato molto lungo e altrettanto doloroso. Avevo cominciato scrivendo una serie di romanzi da una parte e di memoir dall’altra. Non potendo mettere tutto ciò di cui volevo parlare in un solo genere di contenitore, ne avevo allestiti due, il che riflette tra l’altro la scissione tipica dell’identità femminile. Sono andata avanti a lungo così, ma mentre i miei romanzi non producevano particolari reazioni, i miei memoir facevano arrabbiare i lettori, che dicevano di uscirne sconvolti, e mi ribaltavano contro le loro emozioni colpevolizzanti. Si vede che non ero riuscita a restare sulle generali come avrei voluto: nella forma del memoir, mi ero presa delle libertà che ho pagato a caro prezzo: evidentemente sbagliavo qualcosa, il contenitore che avevo ideato non funzionava. D’altronde, mi chiedevo, come mai la forma-romanzo autorizza l’autore a inventare episodi di crudeltà, scene di orrore, sentimenti abietti e chi legge per giunta non batte ciglio? Questo, mi sono detta, rivela che la forma-romanzo ha qualcosa di pornografico, e dunque ho cercato di elaborare una terza via.