Difendere l’indifendibile. Così l’Economist sintetizzava pochi giorni fa il compito che si è auto-assegnata Aung San Su Kyi: nel 1991 premio Nobel per la pace e ieri a L’Aia, di fronte ai 17 giudici della Corte di giustizia internazionale, scudo ufficiale del governo del Myanmar per i crimini commessi nell’estate del 2017 contro la popolazione Rohingya nello Stato del Rakhine.

ALLORA FURONO PIÙ DI 700 MILA i Rohingya costretti a lasciare le proprie case, ad attraversare il fiume Naf e a cercare rifugio nel confinante Bangladesh, nel distretto di Cox Bazar. Abusi, omicidi sommari, villaggi dati alle fiamme, bambini rimasti senza madri, madri che hanno dovuto assistere all’esecuzione dei propri figli e mariti, uso sistematico dello stupro come arma di guerra: i racconti e le denunce di chi è scampato a quello che per le Nazioni unite è un «caso da manuale di pulizia etnica» hanno spinto il governo del Gambia, in rappresentanza dei 57 Stati membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, a portare il caso di fronte alla Corte internazionale. Il Gambia accusa le autorità birmane di aver violato la Convenzione sul genocidio del 1948 e chiede «un’ingiunzione temporanea» (provisional measures) che le obblighi a proteggere i circa 600 mila Rohingya ancora all’interno del Myanmar.

Formalmente Consigliera di Stato, di fatto capo di Stato, Aung San Suu Kyi ieri ha negato l’accusa di genocidio, sostenendo che si trattasse di scontri interni, provocati dagli attacchi alle stazioni di polizia locali, e ammettendo che «potrebbe esserci stata una risposta sproporzionata da parte dei membri dell’esercito». Casi individuali di cui saprà occuparsi la giustizia militare del Myanmar, non un genocidio.

Per Amnesty International si tratta di smentite «deliberate, ingannevoli e pericolose», che negano la persecuzione sistematica e ripetuta di un’intera popolazione e la morte di circa 10 mila Rohingya. Emblematico, per gli osservatori, il fatto che nel suo discorso di circa 30 minuti Aung San Suu Kyi non abbia mai usato il termine Rohingya, negando implicitamente la stessa esistenza di una popolazione specifica, come continua a fare il governo del Myanmar, per il quale si tratta solo di ospiti stranieri, indesiderati.

LA PARABOLA DI AUNG SAN SUU KYI – da icona della lotta per la democrazia a scudo per i crimini più abietti – dimostra che i diritti universali non sono tali quando si scontrano con gli interessi dello Stato-nazione e con i calcoli personali.

Dietro la sua scelta, hanno notato sul Washington Post Shibani Mahtani e Michael Birnbaum, c’è probabilmente un calcolo politico domestico. Da una parte rafforzare se stessa e il proprio partito, la Lega nazionale per la democrazia, in vista delle elezioni del novembre 2020, con un gesto accolto con grande favore dalla maggioranza del Myanmar, dove è diffusa la percezione che il mondo esterno non abbia compreso la reale dinamica degli eventi dell’estate 2017; dall’altra migliorare il rapporto con i militari, che nonostante le aperture del 2015-16, quelle che le hanno permesso di rientrare nell’agone politico e al governo dopo circa 15 anni di reclusione a intermittenza, ancora controllano il paese e hanno diritto di veto su ogni modifica costituzionale.

E c’è anche chi, dietro alla controversa scelta di Aung San Suu Kyi, vede un vero e proprio patto con i militari: la “lady” perde la faccia di fronte all’opinione pubblica mondiale, in futuro i militari le permetteranno di diventare presidente.