In un momento in cui la moda affronta la svolta della sostenibilità all’interno di una difficile ripresa e cerca di mantenere l’etichetta di Made in Italy nella globalizzazione di brand e confezioni, esce «Moda e cinema in Italia» di Eugenia Paulicelli, professore ordinario di Women’s e Fashion Studies a CUNY. Da New York la studiosa è in grado di cogliere al meglio i caratteri di questo binomio, che comprende due grosse fette di PIL ma, come dimostra la situazione attuale dello spettacolo, continua a essere trattato dai governanti con un sussiego miope, ignorando che sono questi i simboli e la forza dell’Italia, e non le auto della FCA.

Con un aggiornato approccio storico e teorico, il libro analizza come i costumi disegnati per il cinema abbiano influenzato la produzione delle case di moda e contribuito alla creazione dell’immagine dell’ Italia attraverso una storia culturale che esamina film, archivi delle grandi sartorie e intervista gli addetti ai lavori. Scrive Paulicelli: «I vestiti acquisiscono una pluralità di significati sui piani affettivo, sensoriale, estetico e politico, trasmessi dal corpo e dalla grande macchina mediatica costituita dal cinema.» E questa densità implica varie Storie: quella delle arti, della tecnologia e delle donne.

A partire dalla considerazione -spesso ignorata- che il cinema italiano è stato un prodotto di eccellenza che ha dominato il mercato internazionale tra il 1908 e il 1915, Paulicelli analizza il cinema delle dive, che si sfidavano a cambi d’abito, estrosità dei cappelli ed eleganza (o stravaganza). Questa esteriorità non era solo «forma» ma diventava il contenuto di un cinema che capricciose primedonne come Francesca Bertini, Lyda Borelli e Pina Menichelli imponevano, scegliendo storie che consentissero loro di vivere eternamente in abito da sera e in ambienti principeschi. Diventarono comunque un modello interclassista per il pubblico in gran parte femminile, che scopriva il grande magazzino e il cinema insieme, ovvero la modernità. Paulicelli nota come i fruscianti abiti sui corpi delle dive «amplifichino il dinamismo dell’immagine cinematografica» riproducendo il ritmo fluire/posa, tipico delle sfilate di moda, per esempio attraverso l’alternanza dei movimenti felini dell’attrice e il dettaglio di un accessorio. Proprio in quegli anni gli stilisti avevano iniziato a dare un nome evocativo agli abiti, piuttosto che un numero, facendone degli «abiti di emozioni.» Borelli infatti indossa il Delpho plissettato di Mariano Fortuny e un abito di Poiret in «Rapsodia satanica» (Oxilia, 1915) e un velo, simbolo della favola faustiana del film ma anche del gioco tra vedere e nascondere del cinema, donna velata diventata poi il logo di Cinema Ritrovato. E come dimenticare la lunga collana con un crocefisso che sfiora l’inguine, indossata dalla Menichelli nel censurato «Tigre reale», «sconfinamento tra sacro e profano, degno di Madonna.»

Il cinema fascista viene visto attraverso la riscoperta della geniale Irene Brin, dei dibattiti sui costumi e le scenografie su Casabella, l’emergere di costumisti come Gino Sensani e Maria De Matteis, le sfilate di moda italiana nei cinegiornali LUCE, e «La contessa di Parma» (Blasetti, 1937) ambientato negli atelier di Torino, dove si svolgevano le sfilate dell’Ente Moda, i cui prodotti certificati appaiono nel film, con un vero product placement nazionalista.
Un esteso capitolo è dedicato ad Antonioni, dal suo documentario sulla SNIA Viscosa sulla fabbricazione del rayon che si conclude con un défilé, al suo cinema in cui «la moda è al centro dei complessi processi di formazione e negoziazione dell’identità nel contesto dei cambiamenti sociali e culturali». «In Cronaca di un amore e Le amiche [abiti sorelle Fontana e co-sceneggiatura di Alba De Cespedes] i vestiti… sembrano attirare l’attenzione su di sé… a sottolineare una femminilità da rivista di moda… e nello stesso tempo imprigionare i personaggi» raccontando le contraddizioni emotive ma anche di classe e di genere, del tempo.

Nel dopoguerra «l’industria tessile e della moda ebbero un ruolo cruciale nelle ricostruzione … e nella riabilitazione economica e diplomatica» del paese, il tutto finanziato dagli americani col piano Marshall e con l’acquisto della moda italiana per i grandi magazzini americani, fino alla Hollywood sul Tevere in cui il cinema americano arriva a Roma per fare film, e per vestirsi. L’ultima parte del libro è dedicata dunque al Fellini de La Dolce Vita (1960), e ai modi in cui cinema, moda e città di Roma hanno prodotto un efficace branding dell’idea di Italia, nel 1960, anno delle Olimpiadi romane e dell’affermarsi della modernità anche nel Bel Paese.