«Poi si cammina scalzi, nudi se possibile. Poi si mangia e si beve dal luogo. Si dorme con esso. Si osserva e si ascolta. Si studia. Si impara. Si ascolta. Poi si resta». Janisse Ray si è appena immersa nel freddo fiume Clark Fork, a est di Missoula nel Montana, mentre due gheppi si sollevano da un prato erboso, davanti ai suoi occhi. Sono numerose le apparizioni che Ray riporta nel suo volume: Wild Spectacle. Alla scoperta di meraviglie in un mondo oltre l’umano (Meltemi, pp. 220, euro 18, traduzione di Giulia Vallacqua).

Naturalista e attivista che ha pubblicato circa sette libri tra saggistica e poesia, l’autrice compone ciò che può essere definito un ibrido letterario, a metà tra il diario di viaggio e il memoir il cui filo rosso è lo stupore radicale verso la wilderness, attenendosi «al pensiero tattile delle cose in sé» – come specifica Matteo Meschiari nella sua bella prefazione alla edizione italiana. Gli incontri che Ray restituisce sono colmi dunque di un incanto che pur tuttavia non si piega al lirismo di pochi bagliori, è la storia di una terrestrità da camminare e ringraziare, con la coscienza di far parte del mondo e, al contempo, di non possedere alcun privilegio ontologico sui viventi che lo abitano.

DALLE ELKHORN, in cui l’asso della bussola indica sempre la morte, alla giungla di Lamanai, dal Belize all’atollo di Turneffe, dall’Alaska alla Georgia, questa donna si innamora continuamente del circostante, spiegando a chi legge che lo sciabordio dell’acqua è sempre animale, che la sensazione dell’anima che abbandona il corpo per elevarsi fino al cielo è qualcosa di assai materico e lei di quel «fuori» ha fatto esperienza diretta. Disincarnata e indifesa, ne seguiamo l’intorpidimento, simile alla perdita di sua nonna e ai sogni che ne fa, qualche pagina dopo è invece il distacco dal suo amico Michael, e ancora il color melassa che balugina in fondo a una valle e che confonde alla vista decine di alci. O di gru canadesi, orsi e tiranni codaforcuta, salmoni e fiori di Sygonanthus.
Lo «spettacolo selvaggio» di Janisse Ray è sincretico e metonimico, balza come l’iguana incrociata a Cabo Blanco, in Costa Rica; suona come ogni singola foglia dentro la foresta; possiede il potere del duende che non riesce a tenere in vita Joaquín; e infine festeggia la sensorialità di chi ne è spettatrice.

Alla grande industria del turismo, in queste esperienze si sostituisce il desiderio autentico della ricerca. Di cosa lo spiega con intelligenza Paolo Pecere nel suo libro Il senso della natura. Sette sentieri per la terra (Sellerio, pp. 530, euro 19) che si legge come faglia di abbondanza entro cui fare attecchire un’imprevista avventura gnoseologica. Per l’autore, professore di filosofia e amante della letteratura, si presagisce fin dall’infanzia, quando, bambino, alla domanda Chi sei rispondeva Io amo la natura.
L’amore di Pecere è dei più sontuosi, perché la stanchezza del viaggio non lo spaventa mai. É invece impastato di futuro e conoscenza, di premura e curiosità verso l’alterità libera e complessa delle creature non umane, verso le piante, gli alberi e i sentieri scomodi, verso terre riemerse e quasi scomparse, verso origini che si riscrivono continuamente.

GLI SPOSTAMENTI condotti sono molteplici, eppure, anche qui come accade a Janisse Ray, per Pecere non si tratta di semplici resoconti esplorativi, si entra a contatto con altri spazi del visibile che si fanno immaginativi e sostanziali, raccontando lontanissime consistenze e altrettante relazioni. Succede in Islanda, nel Borneo indonesiano o in Ruanda e ancora in Tibet, e nelle Galápagos, con il conforto di sapere che assistere a una tale sinfonia può contare sulla compagnia di Eduardo Kohn e Viveiros De Castro quanto di Eraclito e Proust insieme, ad esempio, alla comunità Kichwaa o alle moltissime persone che incrocia in quei luoghi. Vulcani, ghiacciai e montagne, sono parte degli sfondi in cui giacciono episodi leggendari, regimi politici e stragi, antichi e nuovi pellegrinaggi e forme di sciamanismo.

Se le centinaia di pagine scritte da Pecere hanno il rigore dello storico della filosofia che, come accadeva agli antichi, indaga l’ambivalenza della meraviglia, l’umano che ne esperisce il tenore avverte che non tutto è in mano sua e si mette in attesa di nuove connessioni: la lezione può arrivare dai polpi, o da un orango. Servono perlomeno ulteriori allenamenti: «un serpente si attorciglia sul legno vicino a me, s’avvicina, mi osserva con l’occhio tagliato. Ondeggia come un nastro maculato di arancio e di verde, sparisce nella fessura tra le travi. Il suono è una cascata di onde, un universo liquido di ritmi e accenti che si fondono in un flusso cristallino, in cui lentamente imparo a distinguere le voci». È l’Amazzonia. Le voci sono ancora quelle del mondo. E dei suoi spiriti.