“Quando più di un anno fa ho concepito questo libro, l’idea era raccontare 30 anni di conflitto in Kashmir attraverso i reportages di nove fotografi kashmiri, dal più anziano, Meraj Ud Din, che dalla fotografia per turisti e matrimoni si convertì al foto-giornalismo all’epoca delle primissimi manifestazioni in favore della Palestina; a fotografi di fama internazionale come Dar Yasin, reporter di punta per Associated Press.  E naturalmente avevo previsto una presentazione del libro anche a Srinagar, cosa che è successa – ma non avrei mai immaginato che potesse coincidere con una situazione così esplosiva, così proprio Witness/Kashmir…”
Chi parla, in precario collegamento skype (perché Internet in momenti come questi smette di funzionare in Kashmir), è Sanjay Kak, film-maker, saggista e appunto autore/editore a tutto campo di questo straordinario foto-libro che in effetti, oltre ad essere un reportage di guerra a nove voci, è la condivisione di un’esperienza. A partire proprio dall’oggetto/libro, che si presenta con l’aspetto (solo in apparenza povero, in realtà preziosamente hand made) di un faldone: due grezzi cartoncini rigidi, un pezzo di tela rossa che li tiene insieme a mo’ di dorso, un cordino bianco che trattiene quanto riesce a starci dentro – e niente potrebbe meglio esprimere la precarietà di questa memoria che si è salvata per accumulo, nonostante le esplosioni, manifestazioni, perquisizioni, stragi, sanguinose elezioni, e ogni tanto alluvioni, da riprendere. E dunque un lavoro sul recupero, sulla pazienza necessaria per la messa in sequenza. La condivisione di uno sguardo che, accanto a quello del fotografo che magari neppure si ricorda quel che ha in archivio, ripercorre infinite colonne-immagini di tumultuoso riprendere, nel tentativo di capire: che cosa è successo e quando; e com’è che si è arrivati all’Intifada più che mai violenta oggi, a 30 anni dagli inizi.
“La realtà è che non c’è soluzione, le cose andranno sempre peggio” commenta Sanjay Kak. “L’anno scorso gli scontri cominciarono in luglio, in risposta all’uccisione di Burhan Wani, giovane e carismatico leader mujaidin: nessuno si sarebbe aspettato un’affluenza così massiccia al suo funerale. Bilancio di sangue nei quattro mesi che seguirono: decine di morti, centinaia di feriti per via dei micidiali proiettili che prima di colpire si scheggiano e appunto non uccidono, ma si conficcano ovunque, moltissimi coloro che vennero colpiti agli occhi.  Quest’anno il carnaio è cominciato ancora prima, 9 aprile, per una chiamata elettorale boicottata dalla popolazione – con il solito lancio di pietre, gli spari dei militari, solo quel giorno sono morti in otto, feriti non so quanti. Da allora è stato un crescendo: raids a sorpresa nelle tre università a pochi chilometri da Srinagar, azioni punitive di eccezionale brutalità nei confronti di giovani inermi – per culminare con la ‘trovata’ di legare un malcapitato a un veicolo militare, a mo’ di scudo umano contro il lancio delle pietre. Il ‘fatto’ è stato ripreso e diffuso su You Tube, manciata di secondi subito virali sul web, suscitando il più grande sdegno non solo in India. Ma il peggio è venuto dai vertici stessi delle truppe di occupazione, che lungi dal proporre punizioni per i responsabili hanno sostanzialmente detto: ‘a mali estremi, estremi rimedi’. Perché questa è ormai la linea del Governo indiano: nessuna mediazione, anzi! Guerra senza fine, Guerra Perfetta: perfetta per mantenere in stato d’allerta le relazioni con il Pakistan; perfetta per alimentare il fondamentalismo hindu in India; perfetta come sfoggio del peggior machismo, da parte di un esercito di occupazione (500 mila uomini) che non ha eguali nel pianeta, superiore persino  a quella US in Irak… Infinita tragedia, non c’è altra definizione.”
Una tragedia che in qualche modo appartiene anche alla storia di Sanjay Kak, la cui famiglia è originaria del Kashmir, ma appartenente a quella comunità Pandit che dovette emigrare perché in minoranza rispetto alla comunità islamica. “Ma non è questo che mi ha stimolato a guardare al Kashmir, per andare oltre la versione propinata dai media indiani e supinamente accettata dall’opinione pubblica, circa una jihadi importata dal Pakistan – come se non potesse esserci altra storia. La mia prima visita ‘mirata’ fu nel 2003, per cercare di aiutare un povero disgraziato, un certo Gilani, docente all’Università di Delhi, che era stato accusato di aver guidato l’attacco terroristico al Parlamento Indiano nel Dicembre del 2001. Insieme ad altri attivisti indiani impegnati sul fronte dei diritti umani, ero certo della sua innocenza – ed eccomi appunto finto-turista a Srinagar, per raccogliere elementi utili a smontare l’accusa. Dopo un lungo processo, Gilani venne rilasciato – ed io, che già avevo al mio attivo parecchi documentari in focus sulle crepe della democrazia in India, cominciai a trascorrere periodi sempre più lunghi a Srinagar e dintorni, per documentare l’incredibile brutalità di quell’occupazione.” Il risultato fu Jashn-e-Azadi (In che modo celebriamo la libertà, 2007) che fin da subito godette di una distribuzione capillare quanto clandestina (case private, internet points, garages) e ancora oggi viene considerato un cult. Ma troppe erano le voci rimaste fuori in fase di montaggio, per cui nel 2011 eccole riproposte, ulteriormente aggiornate, nell’antologia Until My Freedom Has Come (Ed. Penguin) che per la prima volta osò parlare di vera e propria Intifada. “Per me era chiaro che non si trattava più di militanza jihadi. Per le strade, a lanciare pietre contro i militari, c’erano ragazzini, e donne di tutte le età, da sempre abituate a considerare la preghiera del venerdì come un momento di corale pianto – ed ora eccole lì anche loro, in prima fila, velate, con il burka, a lanciare pietre.” La cronaca di queste ultime settimane ha confermato questo scenario, e ha visto protagonista tra l’altro il fotografo Yasin Das, il cui lavoro figura appunto tra i nove reportages documentati da Witness/Kashmir. Yasin stava riprendendo per l’Agenzia AP gli scontri tra dimostranti e polizia sulla Main Road, quando si è accorto di una studentessa ferita, per terra. Ha mollato la macchina e l’ha portata letteralmente di peso, di corsa, all’ospedale – diventanti a sua volta oggetto di un emozionante reportage, da parte di un  collega… “Davvero non saprei immaginare illustrazione migliore delle intenzioni che hanno ispirato questo mio libro” conclude Sanjay Kak. “Questa totale aderenza alla storia, tra professionisti che da anni vivono il quotidiano frontline di questa guerra, che spesso li vede in campo, per forza, e non solo come testimoni. Perché occuparsi dei feriti è talvolta più urgente che fotografarli…”
Witness/Kashmir 1986-2016, Nine Photographers, a cura di Sanjay Kak –  200 foto B&W e colore di: Meraj Ud Din, Javeed Shah, Dar Yasin, Javed Dar, Altaf Qadri, Sumit Dayal, Showkat Nanda, Syed Shahriyar and Azaan Shah