Uno dei festival più connotati del panorama contemporaneo, tornito entro il proprio immaginario specifico eppure aperto a innumerevoli risvolti tra ludica e politica, fantasia bambinesca e impegno, apre ora sul web la propria vetrina di primizie agli utenti, in attesa di poter tornare in presenza; cosa che, mi pare, resta il presupposto ineludibile per tutti i festival cinematografici, anche per uno che tra le altre cose pratica le realtà virtuali, i cyberspazi, gli altrove modulati da sinapsi di silicio. Si tratta dello Scifi Club del Trieste Science+Fiction Festival su MYmovies, selezione dei migliori film premiati negli anni al festival, in un palinsesto che si rinnova, si amplia, di mese in mese e contiene alcuni tra i migliori lungometraggi di fantascienza usciti negli ultimi anni, tra cui ad esempio il brasiliano The Man With The Magic Box di Bodo Kox, in cui una vecchia radio diviene viatico per il viaggio nel tempo, o Monsters di quello che poi sarà il regista di Rogue One, Gareth Edwards. Ma non solo film recenti: spicca ad esempio Ikarie XB1 di Jindic Polák, film cecoslovacco presentato alla prima edizione del festival nel 1963, quando raccolse tra l’altro l’entusiasmo di Umberto Eco e divenne poi oggetto di un rifacimento da parte di Roger Corman. Tratto da un racconto di Stanislaw Lem, La nube di Magellano, il film di Polák è una visione imperdibile: ha un che di spichedelico e anticipa le derive interstellari di una moltitudine di film che verranno da lì in poi.

TRA I CORTOMETRAGGI riveste un certo interesse, per la sua contiguità con quanto sta accadendo oggi nel mondo, Die Schneider Krankheit dello spagnolo Javier Chillon, uscito nel 2008 e costruito come un documentario degli anni cinquanta su un virus portato sulla terra da una scimmia spaziale. Il virus si propaga sfrenatamente, tanto da mettere a repentaglio la sopravvivenza del genere umano, che però alla fine resiste e può rimirarsi nella cornice del focolare domestico, bimba sul pavimento che gioca con un trenino di legno, capofamiglia intento a leggere il giornale sulla poltrona e la consorte che vigila, tutti muniti di maschera antigas mentre la voce fuoricampo dice «ricordate: l’importante è vivere! E ora sappiamo che è possibile».
Oppure lo sfoggio di colori fosforescenti, elettrificati, del corto nigeriano Hello, rain di J.C. “Fiery” Obasi, sincretismo di magia tribale e tecnologia, ruralità ed effetti speciali confluiti in parrucche pensanti, pensate però al di là del genere e guardando alla situazione sociale e politica della Nigeria: ci sono qualche ridondanza della voce fuoricampo e le sottolineature plastiche dei rallenty, ma il film è comunque il segno della vivacità del cinema africano, tanto più di quello legato alla genere.

MENTRE A UNO SCENARIO più classico, anche trito, ma ciò con piena compiaciuta coscienza, si rifà Attack of the cyber octopuses di Nicola Piovesan, abbastanza sgangherato in quanto a sceneggiatura e recitazione, occasione per omaggiare Blade Runner e sciorinare tutto l’armamentario della fantascienza degli anni ottanta: macchine volanti tra i palazzi, pioggia imperitura, una minaccia che viene da automi, ora polpi meccanici, sfuggiti al controllo dell’uomo.

MA CIÒ CHE ATTRAE in questo pastiche scollato, spudoratamente stereotipato, non è l’ammicco agli archetipi del cinema di fantascienza, quanto il feticismo di fondo di cui il film è puro, plasticoso pretesto, cioè il serraglio di oggetti e situazioni tipiche pressati in venti minuti, magnificamente, ingenuamente accatastati nello spazio della memoria. Sono schermi a tubo catodico; bottoni e leve meccaniche; apparecchiature angolose, obsolete, colte nel loro essere ricoperte di polvere, come se ne stanno magari adesso riposte in qualche soffitta o in posa sugli scaffali, nella stanza-reliquiario di un qualche collezionista; finanche un Amiga 500 (un Commodore 64 avrebbe svelato troppo facilmente il gioco) attraverso cui si accede a un cyberspazio analogico su calco di Tron.

TUTTI ESPEDIENTI artigianali, esercizio sulla materia, sui materiali, come ricondotti all’egida di Antonio Margheriti a cui è dedicato il documentario di suo figlio Eduardo, The Outsider, che mostra non solo l’acume di uno dei maggiori registi di “genere” tra anni sessanta e novanta, ma anche la sua costante volontà a non prendersi troppo sul serio. E poi un senso critico e teorico («inventiamoci qualcosa!») che lo portò a girare sequenze stupefacenti (ad esempio in Danza Macabra) passate poi nel cinema delle nuove generazioni; tornate a vivere, ad esempio in Tarantino, nel lavoro di ravviamento della luce e della plastica che ancora, dopo tanto tempo, conservavano. mondi virtuali, e una minoranza ribelle ancora attaccata alla realtà, i “viventi”. Infine, il 12 maggio arriva un cult assoluto della fantascienza d’oltre cortina: Fine d’agosto all’hotel Ozono di Jan Schmidt, presentato per la prima volta a Trieste nel 1967.