Stavolta non è l’acquisto di isole contese, come nell’estate 2012, ma il rilascio di acque di raffreddamento dei reattori di una centrale nucleare. Il risultato, a 11 anni di distanza, è lo stesso: i rapporti tra Cina e Giappone sono ai minimi termini. L’inizio delle operazioni di sversamento delle acque di Fukushima, teatro del disastro causato dal maremoto e tsunami del Tohoku del 2011, non arriva all’improvviso come le acquisizioni giapponesi nelle Senkaku, rivendicate da Pechino con il nome di Diaoyu.

Stavolta, politica e opinione pubblica cinese erano già preparate e adeguatamente «riscaldate», tanto da sfociare in un forte riflusso antigiapponese. «Il Giappone ha ignorato l’opposizione della comunità internazionale, i diritti alla salute e allo sviluppo», ha detto ieri il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin, parlando di «comportamento estremamente egoista e irresponsabile» che «trasferisce il rischio di inquinamento al mondo intero».

TOLYO SOSTIENE che l’operazione non comporti rischi. A 12 anni di distanza dal disastro, le acque diluite e filtrate conterrebbero solo limitate tracce di trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Subito dopo il rilascio, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha reso noti i risultati di un’analisi indipendente secondo cui la concentrazione di trizio sarebbe «molto inferiore al limite».

Ma Pechino fa leva sulle conclusioni di un precedente rapporto Aiea, quello che dava il via libera allo sversamento e in cui si affermava che «gli scarichi delle acque trattate» avrebbero avuto «un trascurabile impatto radiologico sulla popolazione e sull’ambiente». Da qui l’accusa a Tokyo di usare l’oceano «come una fogna».

Dopo l’avvio dello sversamento, che durerà diversi anni, la Cina ha subito annunciato il divieto sulle importazioni di prodotti ittici. Un inasprimento di restrizioni in realtà già in vigore su 10 delle 47 prefetture nipponiche. La mossa può fare molto male: Pechino è il principale importatore di pesce giapponese. Ma a rischiare sono anche e soprattutto i ristoranti e le aziende di Tokyo operanti in Cina. Da più parti viene evocato un boicottaggio.

La notizia di Fukushima è di tendenza sui social media cinesi da diversi giorni, dove c’è chi dice «addio al sushi» ma anche a cosmetici e prodotti di intrattenimento giapponesi. Su Weibo, gli hashtag sul rilascio delle acque reflue hanno visualizzazioni nell’ordine dei miliardi. Poche cose polarizzano internet in Cina come la critica verso il «piccolo Giappone», termine dispregiativo tornato di moda con lo sversamento che per gli utenti rappresenta «un crimine contro l’umanità».

L’impatto della vicenda potrebbe durare persino di più della contesa territoriale del 2012. Una ricerca condotta dall’Università Tsinghua indica che le acque reflue raggiungeranno le coste cinesi entro 240 giorni. «Il Giappone inquinerà il mondo intero», ha scritto su Twitter l’ex direttore del Global Times, Hu Xijin. Difficile capire come si possano abbassare i toni, visto che noti commentatori e rappresentanti del governo alimentano la portata dei timori.

LA QUESTIONE ha ovviamente un ampio risvolto politico. Difficile pensare che la Cina possa lasciarsi sfuggire l’occasione di criticare il Giappone dopo che il premier Fumio Kishida ha rafforzato nettamente l’allineamento con gli Stati uniti. Le acque di Fukushima rischiano anche di «intossicare» i rapporti da poco riavviati tra Giappone e Corea del Sud, con le “nozze” celebrate la scorsa settimana a Camp David con Joe Biden.

Il governo sudcoreano sostiene che non ci siano rischi, ma a Seul l’opposizione protesta a gran voce e attacca il presidente conservatore Yoon Suk-yeol per un altro «umiliante inchino» a Tokyo dopo l’accantonamento delle richieste di risarcimento per gli abusi della dominazione coloniale. Almeno 14 persone arrestate per aver provato a fare irruzione nell’ambasciata giapponese.

A Taiwan, il governo ha garantito un costante monitoraggio delle acque e dei cibi importati. A luglio, le autorità avevano consigliato agli importatori di distruggere una spedizione contenente residui radioattivi, seppure fossero sotto i limiti consentiti.

(con la collaborazione di Lucrezia Goldin)