Non ho avuto la fortuna di condividere con la compagna Rossana Rossanda una storia decennale di militanza e di confronto. Non ho memorie di quel secolo scorso che lei ha così intensamente attraversato e profondamente segnato nella vita e la memoria di milioni di persone e di cui in tanti in questi giorni stanno parlando.

Ho vissuto tramite lei il Novecento non, come sarebbe facile pensare, nella forma della memoria ma in quella della raffinatezza dell’analisi, dell’acutezza di uno sguardo allenato ad indagare le complessità del presente. Un presente su cui continuava a domandarsi: cosa posso fare, qual è il mio ruolo in questa storia di sofferenze e soprusi che si chiama ancora oggi e nonostante tutti i miei sforzi capitalismo?

D’altronde capirete l’emozione di uno studente nato nel 1992 che ha potuto incontrare e confrontarsi con la compagna Rossana Rossanda: colei che più di tutti rappresentava il simbolo di una storia ancora possibile, che non ha mai fatto sconti, che non ha mai negato le verità anche più dure, ma che nella sua ricerca è sempre riuscita ad individuare percorsi e orizzonti di società altre, di illuminare le potenzialità di quel che nella società si muove contro le insopportabili ingiustizie che con vecchi e nuovi volti ancora proliferano nel nostro tempo.

Confrontarmi con la fondatrice di un giornale che ha avuto un ruolo centrale nella mia formazione politica come lettura quotidiana e come simbolo di una verità immutabile: non è mai vero che non c’è alternativa, esistono sempre altre strade da poter percorrere insieme ai tuoi compagni e le tue compagne.

Il giorno in cui l’ho conosciuta, le portai in dono da parte della Rete della Conoscenza una maglietta in onore del centenario della Rivoluzione con la scritta “a volte la storia ha bisogno di una spinta”, quasi volendo dire che sentivamo una continuità con quel suo mondo che ostinatamente si era prodigata a tenere in vita a discapito dell’allontanamento di tanti e, ingenuamente, per rassicurarla che eravamo consapevoli che quella spinta spettasse a noi.

In quei giorni in Toscana, a Parigi o a Roma ricordo che parlammo di molte cose ma soprattutto la ricordo mentre domandava, ascoltava, interrogava. Era preoccupata dalla crisi delle istituzioni e della democrazia in Italia. Era curiosa di come vivevano le donne del XXI secolo, di qual era il loro rapporto con la maternità e i movimenti femministi. Si struggeva delle mancanze della nostra parte, di quel partito che dovrebbe organizzare gli sfruttati e gli oppressi che sempre di più affollano le strade della città e del mondo, e di come ci sfuggisse il bisogno di definire un modello di sviluppo alternativo, una società altra, perché senza di quella non esiste sinistra.

Giornate intere a parlare e confrontarsi da cui uscivo sempre con nuove energie, nuovi spunti di riflessione, in cui non potevo che sentirmi stranito da quanto fosse interessata al nostro pensiero, quasi che attraverso di noi interrogasse il mondo e il nostro tempo.

Grazie compagna Rossanda per avermi fatto conoscere l’esistenza di una politica diversa, così distante dalle miserie del presente in cui siamo immersi. Quando abbiamo saputo della tua scomparsa in tanti tra compagni e compagne del secolo nuovo, anche tra quelli che non hanno avuto l’onore di conoscerti, abbiamo percepito distintamente l’allargarsi di un vuoto, di una mancanza che si materializza.

Questo perché in un momento di forte sfiducia, e finanche depressione, per chi come noi sogna ancora di costruire un nuovo mondo, la tua vita ci ha messo davanti alla certezza che l’esigenza di trasformare la realtà e superare l’ingiustizia può durare intatta un secolo di vita, di sogni, di conflitti, di scommesse, di paure, di rivoluzioni, di sconfitte, di amicizie, di amori, di dolori del corpo.

Perché ci ricorda come un monumento che la precarietà, la povertà, la crisi perenne, insomma il tempo così feroce in cui viviamo, non possono essere la scusa per il disimpegno della nostra generazione, perché ci ricorda con il suo esempio qual è il lato giusto della barricata in questa società in perenne conflitto, perché ci insegna che sconfitta non significa smobilitazione, perché ci permette di sognare di poter dire anche noi un giorno che grazie alla lotta “non ci siamo annoiati mai”.