Il «lato oscuro»: così oscuro da venire nascosto in un angolino della storia ufficiale. O cancellato. Ma esiste, eccome: oggi fattura poco meno di 300 miliardi di euro l’anno, coinvolge due-trecento milioni di persone nel mondo, regge l’economia di interi paesi in America e in Asia, e condiziona le economie degli altri paesi, quelli «forti». Eppure continuiamo a saperne poco, come poco si sa dei motivi che spingono tanta gente ad assumere le sostanze «psicotrope», come si chiamano in farmacologia le droghe.
Su tanta oscurità qualche luce, e sull’Italia in particolare, la getta il libro di Paolo Nencini, La minaccia stupefacente Storia politica della droga in Italia (il Mulino, pp. 360, euro 28,00). Nencini non è uno storico di professione ma un farmacologo comportamentale che ha insegnato alla Sapienza. E ha scritto un vero buon libro di storia, talvolta con documenti inediti e nuovi.
Riassumendo, l’assunzione di droghe nel mondo contemporaneo ha due origini: quella medico-terapeutica, nel caso di malati o grandi-feriti (in particolare in guerra); e quella voluttuaria, la ricerca di distanza dalla realtà. Entrambe vengono da secoli lontani (Grecia, Egitto, Roma), ma hanno avuto uno sviluppo geometrico dall’Ottocento in poi. Pare che sia stato propulsivo l’uso intensivo, terapeutico e lenitivo-voluttuario, fatto durante la Guerra di Secessione, un prodromo dei problemi che gli Stati Uniti da allora hanno avuto in questo campo.
Passando all’Italia, il nostro è un paese solo in misura irrisoria produttore di droghe; e quindi neanche consumatore. Di conseguenza non ha mai avuto gran voce in capitolo sul piano internazionale rispetto ad altri paesi, forti produttori e consumatori: Cina, India, Turchia, Germania, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna. Fortunato per esserne rimasto lontano per molti decenni, ha sempre subìto le politiche e le mode altrui, almeno fino a quando, diventato cruciale paese di transito per gli stupefacenti, ha contato di più.
Quando, nell’Ottocento, nei paesi occidentali forti iniziò a penetrare la droga vera e propria, l’Italia era un paese agricolo, dove i prodotti principali da «sballo» erano il vino e l’alcol. Ma con dati impressionanti: nel 1908 a Milano il 17,3 per cento degli alunni delle scuole elementari beveva fuori dai pasti e frequentava le osterie con i genitori; a Roma, alcuni anni più tardi, il 56 per cento delle alunne erano bevitrici abituali e solo il 24 per cento erano astemie.
La legislazione socialista
Lo «sballo» era già un’esigenza allargata, ma l’Italia si limitava a bere, anche quella dislocata nelle grandi città. E così affrontava l’industrializzazione. A quel punto, nacque un controllo antialcolico che subì forti resistenze, soprattutto dagli agrari, dai viticultori, e dai commercianti, ovviamente in particolare di vini e alcolici. Promotori della prima, ma debole legislazione anti-alcolica del 1913 furono il Partito socialista e la scuola antropologica e medica a esso legata, quella di Cesare Lombroso. Intendevano ridare dignità e forza alla classe dei lavoratori, piegata dall’alcolismo. Ma le cose erano complicate. Quella stessa legislazione antialcolica aveva infatti dei risvolti proprio anti-socialisti: perché era una legislazione anti-bettola, essendo le bettole covi «sovversivi», dove si riunivano e facevano politica gli elementi pericolosi, operai e contadini (in modo non molto diverso, le birrerie in Germania servirono sia ai socialdemocratici sia ai nazisti). L’alcol annebbiava ma, insieme, univa a sinistra e colpire i luoghi di consumo voleva dire colpire le micro organizzazioni dei lavoratori.
Opposta, ovvero perfettamente borghese, l’assunzione di droga. Lo intuì presto il solito prensile Gramsci, che scrisse un notevole pezzo sull’Avanti! piemontese intitolato Cocaina (21 maggio 1918). La massiccia introduzione in Italia della sostanza risaliva ai primi mesi della prima guerra mondiale e chissà chi la portò. Gramsci scrisse il pezzo per segnalare che a Torino era stato chiuso un locale dove si consumava, appunto, molta cocaina. E notò con ironia che, a differenza del vino, la cocaina era «indice del progresso borghese» essendo usata da persone «completamente irresponsabili», cioè perditempo. Di contro, additò il luminoso esempio di ben altro «borghese», che rimaneva attaccato al tavolo di lavoro per dodici ore al giorno, Benedetto Croce. Il paradossale modello anche per la classe operaia doveva essere lui.
Anni dopo, nel 1934, nei Quaderni carcerari, Gramsci tornò sulla questione della ricerca del piacere voluttuario da parte del proletariato e lo collegò ai nuovi sistemi di produzione (americanismo) che creavano nuovi bisogni (di alienazione) e nuovi controlli: per esempio il proibizionismo, un modo «militare» di risolvere le questioni. È difficile però dedurre da qui che cosa pensasse davvero del piacere voluttuario, che capiva, ma in fondo non approvava. A sinistra, a quanto pare, siamo ancora lì. Il piacere voluttuario, sempre legato alla proibizione e quindi al crimine, rovina il mondo del lavoro e la sua compattezza di classe, e provoca reazioni politiche ostili da chi quel mondo rappresenta. Dall’altra, ha un’attrattiva irresistibile. Il problema non è certo stato risolto.
Per la droga, in Italia il punto d’approdo è stato senza dubbio, come nel caso degli Usa nell’Ottocento, la guerra. A partire da quella del ’15-’18. E non solo per motivi terapeutici o antinevralgici. Fu subito noto che gli arditi e gli aviatori in combattimento assumevano droghe. D’Annunzio prima e Fiume poi, furono entrambi un volano di quelle sostanze. Da Fiume e dai legionari fiumani, la droga si diffuse tra le squadre d’azione fasciste. E penetrò nel paese, divenne oggetto di costume, di romanzi (Pitigrilli), di poesie (Palazzeschi). Insomma, un feticcio.
La scuola lombrosiana
Ma, ancora una volta, intervennero i socialisti e la scuola lombrosiana, che riteneva che le droghe, come l’alcol, provocassero degenerazioni ereditarie. La prima legge contro gli stupefacenti, voluta fortemente dai socialisti, fu preparata nel 1921, prima del fascismo. Finì però per venir varata a fascismo appena insediato, il 18 febbraio 1923 e fu raccolta come una bandiera dal nuovo regime, che non tardò a parlare degli stupefacenti, allo stesso modo dei socialisti, come di un pericolo per la «razza» (Mussolini, 1926). Il socialismo filantropico (e non fu l’unico caso) confluì nel successivo razzismo fascista.
Così l’Italia fascista tornò a essere un paese senza droghe, almeno come dato di pubblica conoscenza. E venne di nuovo isolata, su questo tema, sul piano internazionale, dove invece vari paesi incominciarono a mettere insieme la prima polizia specializzata e una prima normativa interstatale.
Ci volle una nuova guerra perché in Italia approdasse la mafia americana e iniziasse così un’altra fase nella nostra storia degli stupefacenti. Grazie al progredire del crimine l’Italia divenne più importante. Ma nella lotta alla droga rimase debole. È forse la conclusione più interessante (e paradossale) del libro di Nencini: un paese come il nostro, agricolo e affacciatosi tardi alla droga e che poi l’ha semi-cancellata per vent’anni, per assumere infine un ruolo distributivo o di transito, solo molto tardi ha avuto voce in capitolo in questo campo negli organismi internazionali. Col risultato che siamo diventati un colabrodo. Un solo esempio: il nostro paese è passato in trenta-quarant’anni, praticamente dal niente, ad avere negli anni ottanta «più eroinomani per unità di popolazione degli Stati Uniti» (Nencini, p. 323).