Dal cuore di Old Dakha, la capitale del Bangladesh, bisogna prendere dei piccoli battellini per attraversare il Buriganga e raggiungere l’altra sponda. Su questo largo fiume dalle acque nere come la pece si viene traghettati su piroghe sottili e dall’equilibrio apparentemente instabile.

C’è un gran traffico di umanità, animali, utensili che, per qualche centesimo, si spostano dalla riva dove troneggia il Palazzo rosa di Ahsan Manzil, una volta sede del «nababbo» (nawab), a un quartiere anonimo dall’altra parte del fiume che scorre verso il Golfo del Bengala. Pieno di negozi di tessuti naturalmente, una delle grandi ricchezze del Bangladesh che ogni anno frutta al Paese 30 miliardi di dollari in valuta.

Le fabbriche però, grandi o piccole, sono lontane dal centro città: stanno a Savar, dove si è consumato il dramma del Rana Plaza, o ad Ashulia, distretti suburbani industriali.

IN PIENO CENTRO c’è invece il cuore della produzione di un altro grande bene primario del Bangladesh che se ne va tutto in esportazione: il cuoio. Decine di fabbriche dove si fa la concia delle pelli: la prima lavorazione e quella più tossica che trasforma la materia prima nel prodotto base che può poi diventare scarpa o borsetta.

A un pugno di isolati dal Palazzo rosa, nel distretto di Kamrangirchar e in quello gemello di Hazaribagh, divisi dal Buriganga, si lavora in condizioni bestiali anche con l’aiuto di ragazzi di 8 anni.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 90% di chi lavora in queste fabbriche di veleni che si sciolgono nel fiume non supera i cinquant’anni. Pavlo Kolovos, il responsabile di tre cliniche di Medici Senza Frontiere a Kamrangirchar, spiega che «la metà dei pazienti che viene negli ambulatori di Msf lo fa per problemi legati al lavoro: malattie della pelle, intossicazioni, insufficienze respiratorie…».

«Le nostre inchieste – dice Deborah Lucchetti della campagna Abiti Puliti – mostrano come l’esposizione al cromo, quando viene trattato in maniera non adeguata e si trasforma in cromo esavalente, possa portare anche al tumore. Senza contare che gli scarti delle lavorazioni vanno a finire in falde e terreni espandendo il danno anche oltre la fabbrica».

IL PARADOSSO è che la materia prima – cotone o cuoio – non sempre viene dal Bangladesh che pure è un grande produttore di uno dei migliori cotoni del mondo.

E non sempre i semilavorati finiscono, come avveniva una volta, nei Paesi dove hanno sede le grandi firme americane o europee che sono le vere regine del mercato dell’abbigliamento, dalla gonna allo stiletto, dalla t-shirt al mocassino.

UNO DEI GRANDI PRODUTTORI mondiali di cotone ad esempio è l’Uzbekistan. È una produzione antica come il mondo che un tempo rese famosa la Valle di Fergana. E il cotone uzbeco va a finire in Bangladesh che non ne produce abbastanza per alimentare un’industria che vale il 90% dell’export nazionale.

Quanto al cuoio, la pelle conciata, prima di andare a finire come scarpa nelle boutique di via Montenapoleone o di Bond Street, fa strade molto diverse. Magari arriva in Serbia oppure, ancora in Asia, in Indonesia, Cina, Cambogia.

[do action=”citazione”]Condizioni critiche anche dietro al cuoio lavorato nei laboratori del Bangladesh[/do]

Due recenti inchieste ci aiutano a gettare una luce, anche se assai sinistra, su questa retrovia dei nostri abiti e delle nostre scarpe. Cominciamo dall’Uzbekistan.

UN RAPPORTO di Human Rights Watch mette sotto accusa il finanziamento di svariati milioni di dollari concesso dalla Banca mondiale all’Uzbekistan proprio nel campo del cotone. Si chiama aiuto allo sviluppo.

Ma se si va a far visita al campo di cotone vero e proprio si scoprono cose molto spiacevoli: nel dossier We Can’t Refuse to Pick Cotton Hrw sostiene che il cotone viene raccolto anche da minori e, in gran parte, da gente che non avrebbe nessuna voglia di raccoglierlo (per 5 euro al giorno).

Hrw non è l’unica organizzazione ad aver messo sotto la lente la filiera del cotone uzbeco e soprattutto i suoi finanziamenti. Come quello per l’irrigazione – oltre 300 milioni di dollari – nei distretti di Turtkul, Beruni, Ellikkala nel Karakalpakstan dove il cotone conta per il 50% delle terre arate, in un Paese che è il quinto produttore mondiale ed esporta in Cina, Bangladesh, Turchia, Iran.

IN QUELLE ZONE, dice il rapporto, lavoro forzato e minorile continuano. E la Banca mondiale lo sa perché un gruppo misto – Uzbek-German Forum for Human Rights – glielo ha già fatto sapere da un paio d’anni. Ma anziché sospendere i finanziamenti, la Banca mondiale li ha allargati.

Per la verità anche la Banca mondiale sta attenta alle condizioni di lavoro e anzi il lavoro minorile è un mantra assoluto nella scala dei diritti da rispettare.

Ma i burocrati di Washington non hanno sempre il tempo e la voglia di guardare oltre le carte e così hanno chiesto all’Ufficio internazionale del lavoro di fare accertamenti. L’Ilo l’ha fatto e ha stilato un rapporto dove si citano «progressi».

MA GLI ATTIVISTI DI HRW fanno notare che, per stessa ammissione dell’Ilo, non solo un terzo dei raccoglitori è stato obbligato a lavorare (quasi un milione di lavoratori su tre), ma le autorità avevano messo in guardia gli intervistati. Lo stesso rapporto ammette che «…molti intervistati sembravano essere stati preparati alle domande».

Secondo Hrw la Banca mondiale e la International Finance Corporation (Ifc), un’agenzia della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, dovrebbero immediatamente sospendere ogni finanziamento fino a che il governo non riesca a dimostrare che non esiste più lavoro minorile e lavoro forzato.

[do action=”citazione”]E nelle fabbriche cambogiane usate dai marchi sportivi più famosi le cose non vanno meglio[/do]

Passando alla Cambogia, qualche giorno fa il britannico The Observer ha pubblicato un’inchiesta condotta con la ong Danwatch sugli incidenti nelle fabbriche cambogiane di alcune delle più note marche sportive: Nike, Puma, Asics e VF Corporation.

SOLO NELL’ULTIMO ANNO, più di 500 dipendenti di quattro diverse fabbriche che lavorano per le firme occidentali sono state ricoverate in ospedale. Svenimenti di massa. Il problema è il caldo, la mancanza di ventilazione e di regole sui limiti sopportabili in giornate di lavoro anche di dieci ore.

I prodotti chimici usati per la produzione fanno il resto. Insomma si lavora così. Lontano dai negozi a quattro luci che esibiscono scarpette e tailleur. Nell’ombra asfissiante del grande supermercato asiatico.