Nello scrutare il volto di Dacia Maraini esso diventa il caleidoscopio dei volti della nostra memoria: la bambina internata in un campo in Giappone con lo sguardo corrucciato, la bellissima donna ripresa in uno dei suoi tanti viaggi con Moravia e Pasolini, il volto di oggi di una donna ferma e sicura che il tempo ha scalfito solo superficialmente. Dacia trasmette una pace e una tranquillità inusuali: è il risvolto della sua forza, di un carattere che non è stato mai piegato dalle contrarietà che hanno fatto di lei, anche, una scrittrice molto importante, lontana dalle mode e da sdrucciolevoli cliché. Vive in una piccola, calda casa dove si affastellano libri posti in verticale come funghi, e disseminati per ogni dove, letti o ancora da leggere come tessere di un apprendistato continuato nel tempo.

Parlando della prigionia in Giappone, lei parla delle persone che non ci sono più non come fantasmi ma come «lares».
Questa cosa mi viene dalla cultura giapponese. È come se le persone morte rimanessero nella casa dove hanno abitato e ci proteggano, proprio come i lares, appunto. Non entità da temere ma presenze che ci accompagnano benevolmente in un difficile cammino.

In «Vita mia» lei descrive minuziosamente la vita e i tempi del campo, le atrocità, la fame, il freddo. Eppure non trapela astio o sete di vendetta. L’ha aiutata l’innocenza della sua età?
In parte direi di sì ma da subito ho cominciato a pensarla così. Abbiamo patito la fame, il freddo, le angherie, le malattie però io non riuscivo ad odiare i nostri aguzzini. E poi, alla vendetta non ci ho mai pensato. Ho sempre preferito le regole della Legge. Non voglio sminuire il piacere che può derivare dalla vendetta, è pur sempre un sentimento umano ma ho sempre pensato che, in una società retta da regole e leggi, dovesse e debba essere lo Stato ad amministrare la giustizia.

Uno dei temi ricorrenti del libro è la fame. Mi è subito venuto alla mente «Fame» di Hamsun, «Il minestrone» di Sergio Citti e, per contrasto,«Gargantua e Pantagruel». Che ricordi ha di quella fame feroce?
Beh, i crampi. Lei sa benissimo che il corpo umano, in assenza di cibo, consuma il proprio grasso, ogni tipo di riserva. Ecco, quando ogni riserva è finita allora sopravvengono i crampi, sono dolori indescrivibili. A questo aggiunga le infezioni (i pidocchi, per esempio) e tutto è amplificato, tutto è insopportabile.

Lei parla del diario che tenne in quei mesi Topazia, sua madre. Azzardo un esempio: potrebbe essere comparato al «diario» di Anna Frank?
Per molti versi potrebbe ma con una differenza sostanziale: in uno è una donna adulta che scrive e descrive, nell’altro è la realtà vista da un adolescente. Entrambi descrivono una situazione di disagio e di difficoltà estreme ma è l’ottica che cambia.

Lo sgozzamento di una pecora l’ha fatta risolvere a non mangiare più carne, il latte di una capra le ha salvato la vita.
Chissà se l’uomo capirà mai compiutamente che gli animali sono esseri senzienti e che la scomparsa di molte specie, spesso protette, significherà la morte sulla Terra. E non bisogna essere necessariamente animalisti per pensare questo.

Ho appreso dai suoi scritti, e ora ne ho la conferma, la leggerezza che anima il suo incedere. Ed è stato questo, presumibilmente, quello che l’ha convinta a scrivere la prefazione a un libello sgangherato di Pino Pelosi. Ma Pelosi era un anaffettivo, neanche «in limine mortis» ha sentito l’urgenza di svelare quello che c’era dietro l’assassinio di Pasolini.
Lei ha ragione, pensavo che stesse seguendo un percorso di cambiamento. E invece penso si sia trattato semplicemente di omertà.

Quando era al campo visse direttamente lo scoppio dell’atomica?(Hiroshima, ndr)
No, ci venne riportato. Eppure mio padre pensò che dietro la morte di mia sorella Yuki, che morì poi a 50 anni, ci fossero le radiazioni della bomba. Non fu comprovato, ma certamente possibile. Ricordo lo smarrimento di soldati e civili nell’apprendere la notizia, questo lo ricordo bene.

Che ricordo ha dei frequenti terremoti vissuti in Giappone?
Tremendo, tremendo. Era un fenomeno frequente. Difficile da descrivere. Quando tornava mi dicevo ‘eccoci di nuovo’ ma era destabilizzante. Proprio perché frequenti, come una malattia.

In «Caro Pier Paolo» c’è un senso di scoramento inestinguibile per la perdita di un amico fraterno eppure anche questo scritto in leggerezza come se Pier Paolo fosse ancora tra noi.
Pier Paolo era molto dolce, riflessivo, non si arrabbiava mai. Se lo si vedeva cupo era solo in circostanze ufficiali, in televisione, in occasione di un’intervista. Con gli amici e, in genere,nella quotidianità era una persona dolce, pacata.

La storia con Silvana Mauri, futura moglie poi di Ottiero Ottieri, è stata forse la storia d’amore più bella di Pasolini. Seguita da quella con Maria Callas. Lei pensa che queste storie furono ‘totalizzanti’?
Con loro, specialmente con la Callas, c’era molta ‘fisicità’, anche dei baci. Ma non credo che si amassero fisicamente. Ne parlavamo spesso e per lui fare l’amore con altre donne era come fare l’amore con la madre. Noi possiamo adesso imbarcarci in discorsi psicanalitici, e molto è stato detto in questo senso, ma fare l’amore con una donna equivaleva per Pier Paolo ad un incesto.

A tutti è nota l’esperienza di Pasolini con una prostituta («e son contento che tu non possa esser qui mio figlio non nato…») e io stesso, a mia volta, fui testimone di un’altra sua esperienza simile. Al punto che la donna, innamoratasene, smise per mesi il meretricio, si illudeva che Pier Paolo sarebbe tornato da lei e per lei.
Mi ricordo perfettamente che me ne parlò e addirittura aggiunse una riflessione: che il sesso eterosessuale non gli era dispiaciuto. Però una prostituta non offre un amore totalizzante, fu per questo che per Pier Paolo il rapporto, o i rapporti come ricorda lei, furono poco impegnativi. In pratica in quel caso quelle donne non si sostituivano alla madre.

Lei parla, in un passo del libro, di conversione, di fascino per una spiritualità dettata dal credo. Lei è credente o laica?
Sono assolutamente laica.

Qual è l’odore che le ricorda di più un fatto, una cosa, una circostanza?
Lo zaino di mio padre (risponde senza tentennamenti), che era un misto di cuoio, di indumenti usati, di sudore, di scarpe.

Pier Paolo patì un senso di colpa inalienabile: per la sua omosessualità che lo tormentava, e per la morte del fratello Guido. Queste due cose ingenerarono in lui un masochismo fisico che toccò a tratti l’abisso. Le accadde di esserne testimone?
Questa cosa la conoscevamo molto bene noi amici.

Ora che quasi tutti i protagonisti di quella storia non ci sono più le chiedo: come andò con Giuseppe Berto? La vulgata dice che lui desiderava far parte della intellighentsia romana, di Moravia e Pasolini sostanzialmente, e lei, e alcuni altri, ma la lite che ne seguì vide uno scrittore inviperito contro di voi.
No, non andò così. La cosa è più lineare di quanto non la si descrivesse. Io avevo vinto la sezione giovani, oggi si direbbe così, del Premio Formentor. Lui attaccò me accusandomi di essere una raccomandata ma in verità attraverso me voleva colpire Moravia che non lo aveva sostenuto. Senza inutili dietrologie.

Il femminicidio è divenuto il nostro incubo quotidiano. Serve un cambio di passo del femminismo?
Mah, innanzitutto non tutto il genere maschile è coinvolto in questa barbarie. Fortunatamente. Il problema è prettamente culturale. Se un ventenne uccide la fidanzata dopo averla vessata, dove ha appreso questa cultura? Ora, io non credo che i social inneggino ad uccidere una donna e, vivaddio, molti passi avanti sono stati fatti. Ma io ipotizzo che quella cultura circolava in famiglia. Magari in modo subdolo. Nessun padre e nessuna madre – lasciamo perdere i distinguo- aizzano i figli maschi ad uccidere fidanzate o spose ‘disubbidienti’. Ma basta una parola buttata lì per caso, magari senza malizia, per ingenerare nei figli, e non a tutti intendiamoci, idee malsane. Manca la cultura della parità. Finché non capiremo che un uomo e una donna vanno posti su un piano paritetico, stesse esigenze stessi diritti, non ne usciremo fuori. Una donna che lavora, che fa magari un lavoro importante, in seno alla coppia, non indebolisce il suo uomo anzi, lo rafforza.