Volendo, sI può cominciare dalla fine. Fallen Angels, il disco con cui Dylan ha segnato il suo 75esimo compleanno, sembra indirizzare su Frank Sinatra lo slancio devozionale che un tempo era riservato a Woody Guthrie. Spiazzante parabola? No, se c’è di mezzo il genio scostante di un artista poco avvezzo al proprio e all’altrui compiacimento.

Come il precedente Shadows of the Night, l’ultimo Dylan si china sugli «angeli caduti» del Great American Songbook, gli irregolari precipitati dalle creazioni di Cole Porter o di Richard Rodgers. Sontuosamente riarrangiati e reincarnati in una voce corrosa e lacerata, che è stata definita spettrale, nel qual caso sarebbe la prima volta che un fantasma sfodera un timbro così caldo e avvolgente. E se oggi Dylan canta in modo sublime On a little street in Singapore, da perfetto anticrooner, risultando credibile più che mai, i fan più contrariati farebbero bene a riservare un po’ di spaesamento per dischi come From Another World, la travolgente transumanza delle sue canzoni più celebri condivise alla loro maniera da musicisti che arrivano da Cuba, Bangladesh, Macedonia, Taiwan, Myanmar, Iran, Egitto.

L’interprete così clamorosamente svelato dalle ultime metamorfosi sinatresque, un po’ canta anche la rinuncia ad avventurarsi in nuove opere «letterarie». In sostanza si libera del giogo di dover «dire» per forza qualcosa. Ma a Stoccolma non se ne devono essere accorti.