Il Regno Unito è appena stato spaccato a metà dalla Brexit, nel giro di pochi anni l’Algeria viene travolta dalle manifestazioni di piazza contro il presidente Bouteflika, ma per Fahed questo è quasi solo rumore di fondo: il suo tormento è l’esilio, una parola che ritorna frequentemente nelle conversazioni fra algerini per descrivere quelli che hanno lasciato il Paese, il sogno di tanti ma poi anche, spesso, la loro croce.

Fahed è uno di quelli che «ce l’ha fatta», vive in Inghilterra – a Grimsby – dal 2000, i suoi documenti sono in regola a differenza di quelli di tanti connazionali che continuano a tentare l’impresa, a lottare per raggiungere un mondo pieno di promesse ma che a Fahed, dopo quasi 20 anni, appare arido, perfino ostile nel monotono ripetersi sempre uguale delle giornate: andare a lavoro alle cinque del mattino, tornare a casa, vedere gli amici, poi coinquilini dopo il fallimento del suo matrimonio con una donna inglese. «Ho finito per disprezzare il loro stile di vita» dice Fahed degli inglesi davanti alla telecamera di Karim Sayad, che in Mon cousin anglais – nel concorso internazionale del Festival dei Popoli in corso fino al 9 novembre – lo segue per anni, da Grimsby all’Algeria: il paese natale che nella distanza, nell’esilio appunto, ha assunto i contorni della terra promessa, e dove Fahed decide di tornare.

PER SCOPRIRE però un’amara verità: che l’esilio lo perseguita anche in patria, dove si sente altrettanto straniero, pianifica matrimoni destinati a saltare e non riesce a realizzare nessuno dei suoi progetti. Accompagnandolo nel suo irrequieto vagare fra i due paesi, il regista tratteggia l’affresco di un sogno che può tramutarsi in incubo nel momento stesso del suo realizzarsi. «Regrets, I’ve had a few/but then again, too few to mention», canta Sid Vicious, nella sua versione di My Way di Frank Sinatra, mentre Fahed cerca di inscatolare 20 anni di vita in Inghilerra per portarli con sé in Algeria. Con amarezza, le parole della canzone fanno da contrappunto alla situazione del protagonista, che scopre esattamente l’opposto: di non aver mai vissuto a modo suo.

LA MUSICA non è un contrappunto, ma l’essenza stessa della narrazione, in un altro documentario in concorso al Festival dei Popoli – e che sarà a Milano, a Filmmaker Festival, sabato 16 novembre – A Dog Called Money di Seamus Murphy. Un’anziana donna kosovara rigira fra le mani una catenella a cui sono attaccate delle chiavi: un oggetto che diventerà protagonista di una canzone di PJ Harvey, Chain of Keys, nel suo album The Hope Six Demolition Project.

Un album che è il frutto del viaggio intrapreso con il regista del film, il fotografo Seamus Murphy, attraverso l’Afghanistan, il Kosovo e Washington Dc, e che A Dog Called Money documenta insieme alla registrazione del disco stesso nella Somerset House di Londra, dove viene costruita un’apposita struttura con le mura in vetro per consentire al pubblico di assistere alla nascita delle canzoni della musicista inglese.

IL SUO VIAGGIO insieme a Murphy la porta a incontrare musicisti afghani, a camminare sulle macerie di case saccheggiate durante la pulizia etnica in Kosovo, a confrontarsi con il profondo razzismo di Washington – come di tutti gli Stati Uniti – dove il fiume divide la città ricca e bianca da quella povera e nera, dove non c’è metropolitana per tenere i neri lontani dai quartieri benestanti. «È un odio così grande quello dei bianchi che mi chiedo se ogni volta che guardano un albero non vedano un nero che pende dai suoi rami» dice PJ Harvey: le sue parole, che annota su un diario nel corso di tutto il viaggio, cristallizzano la realtà, la catturano fulmineamente attraverso un particolare. Come la linea melodica di uno strumento, che emerge dall’insieme per poi essere riassorbito dalla canzone.

«A DOG CALLED MONEY» è un musical in cui le immagini diventano canzoni e viceversa: le chiavi nelle mani della signora, i freestyle dei bambini di Washington, ma anche il premere disperato dei migranti sul confine tra Grecia e Macedonia. Il canto dei muezzin di Kabul che chiamano alla preghiera si fonde con quello della musicista, le preghiere cantate dei sufi vengono evocate dal ritmo di una sua canzone e incontrano il canto gospel dei fedeli di Washington.

Il documentario/musical di Murphy immortala anche il rapporto speciale di Harvey e della musica da lei creata con la realtà: nel 2011 l’uscita del suo album Let England Shake aveva preceduto di qualche mese l’effettivo tremito di Londra, travolta dai riots. In A Dog Called Money il rapporto con il mondo che la circonda, e le immagini che lo immortalano, riesce invece a dare forma e voce a qualcosa di tanto evidente quanto difficile da raccontare: l’umanità, il suo orrore e la sua bellezza, che procedono insieme come il canto di PJ Harvey e quella degli strumenti che lo accompagnano.