Mentre si accendevano i fuochi del maggio francese, i parigini affezionati al poliziesco portavano a casa l’ennesimo Simenon, La main, che ovviamente di tutte quelle tensioni sociali, politiche e culturali non recava la minima traccia.
Incomparabilmente più difficile che ricordare tutti i titoli dei film di Totò o dei romanzi di Balzac è tenere sotto controllo la lista delle opere di Georges Simenon, l’autore più prolifico che si conosca, considerato che il corpus dei suoi scritti oltrepassa i 400 titoli. Proseguendo un’impresa avviata nel 1985 con Le finestre di fronte, Adelphi «Biblioteca» manda in libreria il cinquantacinquesimo volume simenoniano, La mano (pp. 172, € 18,00), del 1968, appunto, preceduto di qualche settimana da La fattoria del Coup de Vague, del 1938 (pp. 142, € 18,00), entrambi nella traduzione di Simona Mambrini. I trent’anni che li separano hanno però lasciato tracce non troppo consistenti, giacché alla fine degli anni trenta Simenon ha già messo a punto il suo stile e attivato la macchina di una scrittura ‘dura’, all’insegna della quale si è congedato dai romanzi popolari che aveva pubblicato fino ad allora, e già a ritmo forsennato, sotto vari pseudonimi. Nel ’31 ha infatti dato alle stampe il primo romanzo dichiaratamente letterario, precisamente un poliziesco con il commissario Maigret, il primo di una lunghissima e fortunata serie di romanzi, tutti accolti da un grande successo di pubblico. Nello stesso anno vengono realizzati due film tratti da due suoi romanzi. La rapidità e l’ampiezza del successo stupiscono per primo l’autore che non cessava di meravigliarsi di fronte agli entusiasmi dell’amico e «maestro» André Gide, tra i primi a riconoscere in lui lo scrittore di talento.
Anche in Italia la fortuna di Simenon è precoce e prende inizio già nel 1932, quando Mondadori pubblica quattro titoli dello scrittore belga. E siccome le vendite danno subito un riscontro positivo l’anno successivo vengono proposti altri 13 romanzi, seguiti nel ’34 da ulteriori 15 traduzioni. Un successo inequivocabile confermato dalle successive ristampe e un dato da tenere in considerazione quando si analizza il corso delle traduzioni allestite durante il fascismo e la storia della lettura in Italia.
La mano denuncia una padronanza della narrazione più sicura e incisiva rispetto alla Fattoria del Coup de Vague, ma i due testi presentano non poche analogie anche perché in entrambi si verifica un delitto compiuto con una certa paradossale innocenza. Simenon infatti è sempre stato interessato a mettere a fuoco l’ordinarietà dei suoi criminali e ad entrare nella zona di sorprendente contiguità tra il grigio uomo comune e l’esecutore di un crimine. Il narratore tratteggia la scena inserendo in minime intercapedini i segni di inquietudini invisibili e di tensioni sotterranee, la coscienza delle quali emerge a poco a poco e mai per intero né agli occhi del lettore né a quelli del personaggio. Cosicché l’intento delittuoso si fa strada per cenni e cresce quasi inavvertito con il susseguirsi nelle pagine, e infine si scatena quasi per caso, in ossequio a un disegno di cui il protagonista non scorge mai le dimensioni complete, un disegno che è un destino, con l’individuo che vi soccombe di fatto al di là della sua volontà. Come sulla scena dei tragici greci, l’essere umano è condotto a una sconfitta: la sua coscienza e i suoi occhi restano offuscati da un velo impossibile da lacerare. E come nella tragedia greca, all’origine di tutto c’è una colpa, un grumo nefasto cui fanno capo le vicende dei personaggi, perseguitati da Erinni che vestono abiti moderni.
Ne La mano, Donald, avvocato del Connecticut, si reca a una festa con la moglie e assiste involontariamente a un rapporto sessuale consumato tra l’amico Ray e la moglie del padrone di casa. La visione dei due provoca un certo turbamento nell’uomo che, già alticcio, continua a bere senza misura e a fare considerazioni aspre sulla propria inettitudine e malevole verso l’amico, colpevole ai suoi occhi di aver osato prendersi sempre il meglio dalla vita: solo in quel momento emerge a livello di consapevolezza un sentimento fino ad allora sopito di avversione e gelosia. La tormenta di neve che coglie i due amici e le rispettive mogli nel viaggio di ritorno agisce da detonatore della tragedia: Ray scompare inesplicabilmente e Donald si ritiene responsabile dell’accaduto. Da quel momento si apre per il protagonista lo spazio di un incubo di marca dostoevskiana che avrà esiti fatali. Passata la tempesta e constatato il fallimento delle ricerche di Ray, il macellaio del quartiere commenta la disgrazia con una frase che evidenzia l’ineluttabilità e la prossimità del male, che si verifica senza clamore: «Pensare che cose del genere capitano vicino a casa nostra senza che nemmeno ce ne accorgiamo!». La mano cui il titolo fa riferimento è quella di Mona, la vedova sulla quale si vanno a concentrare i desideri di un Donald avviato ormai sulla via del delitto.
Un fattore del perdurante successo di Simenon consiste certamente nel fatto che le sue storie mostrano in modo inequivocabile come in qualsiasi scialbo avvocato americano, quanto nel più ordinario impiegato francese, sia annidato un possibile criminale, capace di irrompere all’improvviso sulla scena senza neanche la necessità di dover ricorrere alle misteriose pozioni inventate dal dr. Jekill. Come si legge ne La mano, si tratta di «una specie di risveglio», un riassetto della percezione che potremmo anche chiamare epifania e che va a frantumare decenni di convinzioni date per assodate una volta per tutte. Il crimine rappresenta la dimostrazione più lampante della assoluta solitudine e del fatale fallimento cui l’uomo è condannato da sempre, come lo stesso Simenon ebbe a dichiarare apertamente. Alberto Savinio, che riconosceva in Simenon la maestria dello scrittore di razza, notava già nel 1932: «Qui non c’è eccesso di terrore. Il delitto è un delitto di modeste dimensioni e niente affatto singolare… Racine ha imborghesito la tragedia. Ingres ha imborghesito la forma classica della pittura. Restava da imborghesire il romanzo poliziesco. Grâce à Dieu, anche questo è fatto».
La fattoria del Coup de Vague presenta la storia di Jean, commerciante di cozze che vive a La Rochelle con le due zie. Le due donne appaiono agli occhi del nipote come due parenti affettuose che si sono sempre prese cura di lui, orfano di entrambi i genitori. Anche questo romanzo, come La mano, si presenta come un lungo flashback, ma l’espediente viene quasi subito dimenticato dal lettore, immediatamente irretito dal corso labirinto della narrazione. La frase d’apertura è breve e chiara, e preannuncia l’incombere di eventi decisivi: «Non aveva il minimo presentimento». Nel romanzo poco per volta viene ricostruito, e il più delle volte lasciato solo intuire, il passato della famiglia che abita la fattoria del Coup de Vague. Jean è un giovane privo di qualità e di qualsiasi spessore; la sua esistenza si svolge all’ombra delle sue zie che predispongono e controllano ogni aspetto della sua vita, che resta fasciata da una coltre di nebbia della quale il ragazzo non sa e non vuole liberarsi. La storia di Jean, della sua nascita, del suo fidanzamento e delle vicende che ne conseguono è raccontata per così dire en plein air, ma il narratore fa sì che il protagonista resti imbozzolato in un viluppo di opacità e si faccia definitivamente prigioniero della fattoria e delle sue inquietanti zie. Dunque la fattoria non è solo il luogo dove la famiglia dimora, ma è anche e soprattutto lo spazio nel quale si sono consumati eventi indicibili, origine di un segreto che costituisce il fondamento di quella famiglia e dal quale altri segreti verranno generati.
Dunque in entrambi i romanzi i personaggi agiscono spinti da motivazioni che restano implicite e sfuggenti, ma mentre la dimensione della coscienza e della volontà si mantiene latente, quella del denaro e degli agi a esso connessi resta sempre ben solida, visibile e operativa per tutta la durata delle storie. E questo qualcosa pure significa.