Non è ancora entrato nel senso comune, come finalmente dovrebbe per la limpidezza dell’ispirazione e la essenzialità dello stile, Quaderno d’Israele di Giorgio Voghera che ora torna per l’ottima curatela di Alberto Cavaglion nelle Edizioni di Storia e Letteratura («Letture di pensiero e d’arte», pp. XIV-136, € 18,00), quarta riedizione di un testo la cui princeps uscì da Scheiwiller nel 1967 con l’introduzione di un giovanissimo Claudio Magris per essere ripresa dagli Oscar Mondadori (’80), poi da Studio Tesi (’86) e infine dal quotidiano Il Piccolo di Trieste nel ’93.
Classe 1908, triestino di famiglia ebraica e libertaria, figlio del matematico Guido (figura persino ipotecaria per la sua esistenza), impiegatosi nel ramo assicurativo nonostante l’attitudine agli studi, di carattere introverso e da sempre torturato da un rovello etico in tutto simile a una nevrosi, Voghera fugge in Israele nel 1938, ai primi avvisi delle leggi razziste, e vi rimane per circa un decennio: prima di trovare un impego a Tel Aviv grazie alla sua compagnia assicurativa, lavora nel kibbutz, vale a dire la comune rurale, l’esperimento di democrazia socialista che caratterizza la nascita dello Stato di Israele (’48) e ne segna il modello economico-politico per circa un ventennio, fino al periodo aperto dalla Guerra dei Sei Giorni e chiuso dall’avvento rovinoso delle destre al governo nella seconda metà degli anni settanta.
Voghera confessa nella Nota finale di avere scritto il libro in un ebraico elementare, rozzo, e di averlo tradotto in italiano (nel suo italiano schietto, senza un fronzolo, stupendo) solo in un secondo momento. Lo stile è infatti da referto ed è tipico di uno scrittore che ritiene di non avere «abbastanza fantasia per inventare, ma appena per modificare un poco le circostanze». Pure se di carattere ombroso, impenetrabile, Voghera è testimone lucido, curioso della vita nel kibbutz e del microcosmo etnico, religioso e linguistico che caratterizza Israele ed è capace di documentare in una galleria di ritratti (speciali sono quelli dedicati alle donne) la ricca mescolanza, nonché difficile convivenza, di esseri umani molto differenti ma accomunati da un duplice sentimento, la paura (per lo spettro delle trascorse persecuzioni) e la speranza nell’avvenire. È la folla di yemeniti, polacchi, africani, tedeschi, italiani che negli stessi anni Robert Capa, in un celebre reportage, effigia come un popolo giovane e sorridente. La vita nel kibbutz peraltro è durissima, la fatica fisica sembra annientare ogni interesse che esuli dai problemi della pura sopravvivenza.
Il senso di personale inadeguatezza lo scrittore lo proietta e insieme lo riscatta testimoniando la solidarietà profonda tra quegli esseri in origine diseguali e la comune tenacia che non esclude affatto la pietà e, anzi, una autentica pietas: nota opportunamente Cavaglion nella sua introduzione, come si potrebbe anche dire che l’epica elementare del Quaderno d’Israele è un’epica della compassione, per etimologia, dunque della capacità di sentire e comprendere innanzitutto la presenza dell’altro (la donna, l’arabo, il diverso).
Se netta, frontale, è la posizione etica dello scrittore, più sfumata appare invece la posizione politica di chi ammette di sentirsi, quasi fosse un ossimoro, pur sempre un sionista cosmopolita. Va detto che Voghera situa il racconto nel momento anteriore alla proclamazione dello Stato di Israele e perciò alla Nakba, riferendo di una convivenza ancora nel complesso sostenibile fra ebrei e arabi: egli sempre rimarrà a favore dell’esistenza dello Stato di Israele ma segnala i pericoli incombenti di un oscurantismo religioso di ritorno, di ideologie identitarie che svalorizzano la millenaria esperienza della diaspora, infine di un nazionalismo bellicista che vede serpeggiare soprattutto tra le fila degli ebrei italiani: «Ma io mi rifiuto di credere che solo una specie di fascismo ebraico possa salvarci. Se ci potremo salvare, sarà anche senza di esso; e se saremo travolti, a nulla esso ci potrà giovare».
Quando esce, il Quaderno non conosce il clamore e il dibattito suscitati in quella estate del ’67 da Franco Fortini con la memoria intitolata I cani del Sinai, a conferma di una lateralità cui l’opera di Voghera non riuscirà mai a sottrarsi nonostante una produzione poligrafa e la indubbia qualità della sua memorialistica (vedi Gli anni della psicoanalisi, Studio Tesi 1980, su Umberto Saba, Italo Svevo, Virgilio Giotti, Edoardo Weiss, Bobi Bazlen, Giani Stuparich) e nonostante l’apprezzamento di critici del valore di Magris o di Cesare Cases che parla del Quaderno in una pagina del 1980 (ora in Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi 1985) come del «dramma dell’intellettuale maldestro che si costringe a pesanti lavori manuali in nome di ideali con cui non sempre riesce a identificarsi, oscillante fra il senso del dovere e dell’impegno collettivo e la spinta a piantar tutto».
Tuttavia non convinceva Cases quella che, se letta oggi, pare viceversa l’opera maggiore di Giorgio Voghera e, al netto di una certa prolissità e di una relativa staticità, senz’altro un piccolo capolavoro, il romanzo Il segreto (1961), che Einaudi purtroppo non ristampa da almeno quarant’anni. Firmato da Anonimo Triestino e prefato da una entusiasta Linuccia Saba, a lungo dallo stesso Giorgio deviato fra gli scritti di suo padre Guido addirittura, si tratta di un classico romanzo di formazione a dominante introspettiva ed è la storia, apertamente autobiografica, di un amore nevrotico, impossibile, sbocciato nell’adolescenza e però mai dichiarato, per una coetanea il cui senhal è Bianca, un nome che sfida i decenni e la vita medesima dello scrittore, se è vero che troviamo una chiara allusione al suo amore eternamente irresoluto anche nel Capitolo Quarto del Quaderno: «Per mettermi alla prova cerco per un momento di immaginare che quella ragazza bruna e non tanto alta (…) sia proprio lei, arrivata per non so quale miracolo fino quaggiù. No: se lei fosse qui, il mondo assumerebbe un aspetto del tutto diverso. Sarebbe una felicità indicibile, ma poi si rinnoverebbero i conflitti ed il tormento di un tempo. Temo proprio che per me sarebbe come allora». Quasi che la sua straordinaria capacità di comprendere, la implacabile sottigliezza analitica, la sua stessa immaginazione dialettica lo portassero fatalmente a un blocco psicologico e a scontare l’ipoteca edipica in una serie ininterrotta di falsi movimenti, fino alla condizione che un poeta del suo tempo definì delirio di immobilità: al riguardo, introducendo un prezioso album di ritratti fotografici senili (Giovanni Montenero- Marinella Zonta, Il quaderno di Giorgio V., Comunicarte, Trieste 2014), l’amico Giuseppe Marcenaro si riferisce alla psicologia dello scrittore, mancato nel ’99, parlando di un «autentico campione di teoremi rinunciatari, legato da un affetto profondo per il padre, basato su sottili e complessi meccanismi di autoidentificazione, che arrivò a negare d’essere l’autore del proprio capolavoro letterario per attribuirlo al genitore».
Tale ritrosia Giorgio Voghera aveva comunque saputo incorporarla nel suo stesso stile da uomo ombra, da vero e proprio Schlemiel, pari a colui che ancora nel Quaderno d’Israele può permettersi di definirlo come «il mio solito modo, vago e inconcludente».