In un programma interessante, anche di anteprime assolute, la 31ma edizione del Trieste Film Festival diretto da Nicoletta Romeo e Fabrizio Grosoli conteneva vari omaggi a cineasti recentemente scomparsi: oltre a quello al concittadino Omero Antonutti (nel momento in cui lo si sta rivedendo su schermo nel ruolo del padre di Craxi, in una scelta notevole di Amelio, che così conclude i suoi molteplici ruoli di personaggi politici, in un tono molto diverso e ugualmente geniale sia da quelli di Volontè che da quelli recenti di Favino), oltre all’intervista inedita su Fellini col grande Marlen Chuciev (realizzata da Giuliano Fratini, che intervista il cineasta prediletto anche in un lungometraggio sul periodo italiano di Tarkovskij, bel complemento al film ora uscito del figlio che interviene anche qui); oltre a un documentario di Helena Trestikova e Jakub Hejna su Forman, ci ha particolarmente colpito il lungometraggio del serbo Goran Radovanovic su Dusan Makavejev, che è morto nel corso della realizzazione di questo progetto.

IL CASO MAKAVEJEV
Non si tratta, a differenza dei due citati, di un documentario sull’opera complessiva di un regista, ma di un film sul «caso Makavejev», come lo chiama il titolo (Slucaj Makavejev ili Proces u bioskopskoj sali). Il sottotitolo precisa: «ovvero Processo in una sala cinematografica».
Nel 1971, poco dopo la proiezione a Cannes di WR ili misterije organizma, quest’opera subito apparsa oltre i sinora abbastanza larghi limiti di tolleranza dell’ideologia jugo-comunista venne proiettata per un pubblico a inviti in una sala di Novi Sad, con successivo dibattito-processo. Si sapeva dell’evento, ne era rimasta breve traccia visiva in una ripresa documentaria senza sonoro nell’atrio della sala, con un sorridente Makavejev e un solitamente combattivo Zelimir Zilnik. Ma il film di Radovanovic può non solo riproporre questo breve documento muto, ma si costruisce sul ritrovamento della registrazione sonora dell’intero dibattito realizzata di nascosto dal tecnico del suono Slobodan Miletic. Si tratta di un ritrovamento a dir poco eccezionale, e il film ha il merito di farlo ascoltare integralmente nel corso della propria durata. Vi aggiunge brani del film di Makavejev, documenti di repertorio e qualche testimonianza: ma ahimè gli attori Zoran Radmilovic, Ivica Vidovic, Jagoda Kaloper e Jackie Curtis non ci sono più, come da tempo il coraggioso produttore Svetozar Udovicki purtroppo nemmeno menzionato, unica grave mancanza del documentario, in cui della protagonista Milena Dravic e del regista restano invece commoventi tracce su cui pure incombe la morte.

I NASTRI
Tuttavia Radovanovic ha il merito di contrastare queste incombenze di morte con due presenze molto vitali: il tecnico del suono, che svela i suoi nastri splendidamente rubati, e dentro di essi un Dusan Makavejev che interviene alla fine del dibattito con un discorso anche politicamente geniale, insieme tatticamente duttile e senza compromessi. Per un film che contrappone la rivoluzione orgonica di Wilhelm Reich alla figura di Josif Stalin imprigionata non solo nell’ideologia ma nel corpo replicante dell’attore Mikhail Gelovani (del quale va ricordato che morì nell’anno del XX Congresso del PCUS che demolì il personaggio da lui incarnato su schermo), il discorso di Makavejev si contrappone di fatto all’imprigionamento titino nell’ideologia dei discorsi accusatori che precedono. Discorsi tristi, che confermano al film di Makavejev la dimensione eroica di chi voleva credere compatibili in Jugoslavia libertà e socialismo. E quando egli conclude che sarà sempre dalla stessa parte quando altri forse non lo saranno, un buco nell’anima ci travolge oggi, per dirla col titolo A Hole in the Soul con cui egli seppe in solitudine reagire alla distruzione nazionalistica e insieme euro-imperialistica della Jugoslavia.

IL CINEMA SERBO
Sappiamo da tempo che nel 1972 la Jugoslavia, mascherandosi poi con aperture costituzionali alle proprie pluralità nazionali, iniziò a smantellare nella sostanza le ben maggiori aperture precedenti, avviandosi alla dissoluzione. Lo smantellamento del proprio cinema più radicale è quanto avvenne senza mai più essere recuperato al di là di qualche singolo film e cineasta. E ciò soprattutto nel cinema serbo che fu allora il più avanzato, senza nulla togliere ai valori di quello croato, sloveno, bosniaco, macedone e montenegrino. Mentre queste cinematografie negli anni recenti hanno trovato alcune figure marcanti e centrali, le poche vitali sono invece più che mai episodiche in Serbia: proprio lì dove c’era una vera onda, cosiddetta nera. Della quale si ricordano a malapena Makavejev, Pavlovic o Petrovic ma non si è mai stati capaci di cogliere la grandezza non inferiore di Miroslav Antic, Mica Popovic e altri. Il festival triestino seppe riconoscerla in una retrospettiva svolgentesi dal 1998 al 2000, con una coda romena nel 2001.

Nell’edizione appena conclusa, in cui il festival triestino ha proiettato questo documentario importante, ha però anche rivelato che qualcosa si muove nel cinema serbo, e significativamente si muove proprio intrecciandosi al cinema romeno.

IVANA LA TERRIBILE
In concorso e in anteprima italiana (dopo quella internazionale a Locarno) si è visto infatti Ivana cea Groaznica (Ivana la Terribile) della regista Ivana Mladenovic, presente con tutta la sua intelligente vitalità al festival. Nata in un paesino serbo unito dal Danubio al vicino confine romeno, essa ha vanamente tentato di farsi accogliere alla scuola di cinema belgradese, venendo più volte non selezionata, il che purtroppo non è segno di grande acutezza cultural-istituzionale (ma ne conosciamo di analoghi anche a Trieste purtroppo). Ha perciò saltato il confine, dove evidentemente una cinematografia più dinamica l’ha accolta. Perfettamente bilingue romeno-serba (oltre che perfettamente parlante l’inglese), la regista ha finora realizzato tutto in Romania: due corti, un documentario e l’opera prima Soldatii. Poveste din Ferentari proiettata due anni fa a Trieste e tratta dal romanzo di Adrian Schiop che nel film diventa attore protagonista e con lei scrive poi la sceneggiatura del nuovo film, la sua prima vera coproduzione serbo-romena. E il film ci sembra cogliere con grande intuito la forza profonda delle due cinematografie, la nerezza intima della loro commedia. Non importa quanto la regista abbia visto di Rossellini e Dreyer, il suo film «vede» il loro cinema, e nella trouvaille di un documentario archeologico della gloriosa Dunav film assistiamo a un ricrearsi del disseppellimento pompeiano in Viaggio in Italia mentre il titolo non solo gioca con Ejzenstejn ma rimanda alla Giovanna d’Arco dreyeriana dato che la regista (anche attrice protagonista) rivela con sofferenza la paura di perdere i capelli. E alla fine dedica il film all’amica coprotagonista Anca Pop scomparsa in un incidente automobilistico.
Un film indispensabile, capace di celare anziché esibire la forza di cinema. Saprà il cinema serbo accorgersene almeno quanto quello romeno?