Pubblicato da Scheiwiller nel 1967 e ridato recentemente alle stampe dalle Edizioni di Storia e Letteratura (pp. 132, euro 18,00), il Quaderno d’Israele di Giorgio Voghera (1908-1999) costituisce a tutt’oggi un testo tanto pregevole quanto stimolante. Pregevole per la qualità della sua prosa, che si caratterizza per la concisione e l’incisività, la rapidità del ritmo, la ricchezza del lessico nonché per la varietà dei registri espressivi; stimolante in quanto vi è descritta un’esperienza che si è rivelata – nell’ambito della memorialistica ebraica-italiana del secolo scorso – un vero e proprio unicum: una vicenda umana e politica la cui complessità appare senz’altro in grado di avvincere il lettore.
Arrivato a Giaffa dopo aver lasciato Trieste – la città nella quale era nato e vissuto a lungo – a causa delle leggi razziste, Voghera rimase nell’allora Palestina per quasi dieci anni lavorando duramente in un kibbutz.

VIDE DUNQUE L’ALBA di un nuovo Stato, condivise gli ideali di un popolo multietnico che andava unendosi, strinse rapporti di amicizia, si innamorò e fu ricambiato, visse l’esistenza quotidiana di una comunità che, in un periodo storico segnato da infiniti orrori, aveva cercato un rifugio per costruirvi un Paese capace di salvaguardare la dignità dell’uomo.
In bilico tra testimonianza e letteratura, il Quaderno presenta un’altra interessante peculiarità: non dà voce al sionismo dei capi carismatici ma a quello dei tanti pionieri destinati a rimanere sconosciuti, di coloro cioè che considerarono la propria militanza nel movimento fondato da Theodor Herzl una dura necessità imposta dalla stoltezza e dalla crudeltà umana avvertendo tuttavia – nei confronti del contesto in cui si trovano – un profondo senso di estraneità e isolamento.

Un’adesione assai tiepida, dunque, che venne così motivata dall’autore: «Sarebbe forse tutta un’altra cosa se potessi, come tanti altri, essere orgoglioso del mio ebraismo, se potessi credere che dare una patria al mio popolo significa preservarne l’esistenza per un avvenire glorioso, per una missione indispensabile al progresso dell’umanità». In lui sembra così prevalere un intenso disagio che rende le sue giornate spesso angosciose.

ESSENDOSI, inoltre, sempre ispirato a un ideale cosmopolita, egli non poté riconoscersi neanche nell’acceso nazionalismo ebraico professato da tanti suoi connazionali: gli stessi individui che si erano riempiti la bocca magnificando la civiltà, la grandezza, le glorie passate e presenti dell’italica stirpe – alla quale erano fermamente convinti di appartenere – avevano subito poi il trauma che era stato inflitto loro dalla campagna antisemita.
Da lì a persuadersi che il popolo più grande, civile e illustre fosse l’israelita, il passo sarebbe stato breve.

Malgrado, infine, fosse pienamente consapevole di essere scampato all’inferno dei lager hitleriani e di aver ormai raggiunto la salvezza, Voghera visse dunque la propria quotidianità in preda a un malessere di fronte al quale trovò il suo unico ricetto nella poesia, nella musica e nella contemplazione della natura: la sola realtà, questa, che gli diede la forza di considerare un sogno le irritazioni, i contrasti, le lotte e le brutture che ne segnarono gli anni trascorsi nelle colonie agricole collettive. Non è un caso, d’altronde, che il testo sia punteggiato da numerose citazioni musicali e letterarie, tra le quali spiccano quelle tratte dalla Divina Commedia: richiami che, oltre ad arricchire il Quaderno, ci consentono di comprendere meglio la sfaccettata personalità dell’autore.