Bindi, Raffaelli, «Che cos’è un fumetto», Carocci
Provenienti da realtà importanti ma in apparenza molto distanti gli autori lanciano una riflessione coesa e approfondita, univoca, sul significato della parola fumetto. La premessa è chiara: si tratta di un medium complesso che per sua natura resiste a una definizione statica. Ha più senso abbandonarsi all’incrocio tra i regimi di segni che lo costituiscono e alle interazioni che la sua lettura – o meglio l’esperienza – scatena nel lettore, che viene qui accolto in una piacevole passeggiata nella storia del fumetto dall’interessante prospettiva dei mezzi di produzione e diffusione.

Per comprendere la natura del linguaggio infatti non si può prescindere dalle interazioni con il processo produttivo: la diffusione massiva dei primi del ‘900 permette il cristallizzarsi della vignetta nelle strisce, ed è presto chiaro che la narrazione sequenziale ha la capacità di adattarsi alle leggi di mercato, così come di prodursi in maniera autonoma promuovendo la nascita di un’autorialità indipendente dalle tendenze commerciali.

Nel 1933, la nascita del comic book, segna l’emancipazione del fumetto dal quotidiano e crea un pubblico a parte, giovanile. Nascono a breve i supereroi e i collezionisti. In Italia la prima volta la parola fumetto appare in un dibattito sul controllo della stampa dedicata all’adolescenza e nessuno, né da destra né da sinistra (celebre il battibecco sulle pagine di Rinascita tra Nilde Iotti e Rodari), sembra voler prendere le difese del «nuovo» linguaggio. Ci pensa Disney a mettere tutti d’accordo. La Mondadori inizia a pubblicare Topolino nel formato libretto nel 1949, poi sarà il west con il bonelliano Tex, e dopo ancora il timido tentativo di proporre eroi che possano contraddirsi, opporsi all’establishment, allo sfruttamento e al razzismo, come Mister No e Ken Parker.

Dopo i capitoli dedicati al Giappone e allo sviluppo post fordista anni’70 e ’80, la maratona continua con una carrellata di nomi e titoli da capogiro, e con le tappe essenziali del passaggio tra comic book e graphic novel torniamo alla storia nostrana, dopo aver pagato un degno tributo all’immenso Eternauta argentino. Finalmente arriva l’illuminata lettura che Umberto Eco offre della produzione a fumetti, foriera del consumo culturale del fumetto e dell’arrivo dei meravigliosi anni ’70. Ci troviamo ormai nella comfort zone dei festival e della critica specializzata, al fumetto e ai suoi lettori succederanno cose magnifiche, ma siamo anche giunti alla fine della lettura. Storditi, non capiamo bene che ne è stato di quello slancio iniziale degli autori, della domanda del titolo alla quale si erano cercate risposte, per quanto complesse nel primo capitolo; abbiamo però poco più di 100 pagine di utilissimo vademecum storico del fumetto, incentrato, una volta tanto, sull’importante legame tra la forma espressiva, il contesto storico e le realtà produttive.

«Disegnare la guerra civile spagnola: Segni della memoria», a cura di Felice Gambin, Edizioni dell’Orso
Cattedratico di Lettura spagnola all’Università di Verona, Felice Gambin raccoglie in questo volume i contributi più significativi di un convegno del 2018 e delle lezioni online agli studenti del suo corso del 2020. Dieci interventi per altrettante prospettive che spaziano dall’approccio metodologico, a quello storico, a quello comparativo. Daniele Barbieri, uno dei maggiori studiosi del fumetto, spiega lucidamente come il linguaggio della nona arte sia in alcuni casi preferibile ad altre narrazioni per raccontare il conflitto fratricida spagnolo, argomentando come da una parte il medium culturale nuovo sia riconosciuto come progressista e destinato a un pubblico progressista, ma soprattutto come la combinazione di immagine e parola permetta un effetto di presenza testimoniale bilanciando la soggettività della memoria e l’oggettività narrativa. Il curatore Gambin, affronta la periodizzazione della produzione a fumetti dedicata alla Guerra Civile, ricordando come il conflitto si combatta anche attraverso disegni e matite, nelle historietas propagandistiche della fazione falangista contrapposte a quelle della repubblicana, seguite cronologicamente da lavori incentrati sull’apologia del regime, meritevole di aver scongiurato l’avanzata dei comunisti. Si arriva alla difficile fase della Transición nella quale la società tutta, e di conseguenza le storie a fumetti, stanno in bilico tra la necessità di cancellare l’orrore della dittatura per creare un paese democratico e l’impossibilità oggettiva di archiviare 40 anni di caudillo. Numerosissimi e interessanti i testi portati a esempio in questa carrellata, che comprende anche volumi dedicati all’esilio dei repubblicani, le storie sulle Brigate Internazionali, gli avvenimenti centrali del conflitto-come il bombardamento di Guernica- così come episodi significativi precedenti al conflitto o la resistenza dei maquis, per finire con l’apporto autobiografico di molti autori, cospicuo negli ultimi due decenni.

Altri contributi analizzano la figura della donna, tra l’idealizzazione delle miliziane repubblicane (in realtà impegnate principalmente nella retroguardia) e il ritorno al ruolo sottomesso di accondiscendente angelo del focolare durante la dittatura. Interessante la scarsa presenza di fumetti-o di altre opere- che ricordino la decina di migliaia di volontari di origine ebraica accorsi in aiuto dell’esercito repubblicano. Importante l’analisi della trilogia culto dell’italiano Vittorio Giardino No pasarán, che ha definito la Guerra Civil “il primo conflitto armato e sanguinoso nel quale si scontrano destra e sinistra” e che nello stile discreto e nella distanza dai fatti narrati propone un elegante esercizio di fiction volta al recupero della memoria storica. Giardino non è l’unico autore italiano che ha prestato le matite al conflitto, come si ricorda in altri interventi: la cospicua produzione a fumetti nazionale sembra tradurre la necessità di un riscatto italiano dall’impegno prestato a supporto della causa falangista. Il volume unisce rigore scientifico a un sincero e per niente scontato interesse per la memoria storica europea, collettiva, della Guerra Civil, impressa nelle storie a fumetti.

Un’arte poligrafa, ibrida, bastarda e bucaniera: Erry Smolderen, «Le origini del fumetto», Npe Editore

di Alberto Pellegrini

Jean Starobinski conclude così l’introduzione di un libro che ricostruisce la nascita dell’artista-saltimbanco: «è evidente che non mancano gli antenati nel quadro di famiglia del clown: ma sono antenati putativi, dal momento che le filiazioni, in questa dinastia, nascono sempre da concubinaggi». Il libro di Thierry Smolderen su «Le origini del fumetto» nasce con la stessa attitudine.

Non è un caso che il titolo sia declinato al plurale: lo studioso si muove su un terreno sfuggente, pronto a coglierne i diversi stimoli e le impreviste corrispondenze. È un atteggiamento critico che nasce sulle brecce aperte dalla pratica artistica, figlio dell’editoria francese degli anni Novanta che sperimenta, mischia e riscopre, all’insegna di una ‘progressiva erosione delle frontiere’ tra le arti e tra l’arte e il mondo. Che cosa avevano intuito quegli autori? Che quella del fumetto è un’arte poligrafa, ibrida, bastarda e bucaniera: si infila dappertutto, pesca, assimila. Smolderen mostra allora come se ne colgano i primi vagiti in contemporanea al romanzo picaresco e umoristico, e come non per niente nasca più volte: quando mischia i codici diagrammatici (Hogarth); quando parodia i manuali di prossemica (Töpffer); quando trasforma proprio quella parodia nella sua struttura codificata (le strisce dei giornali americani); quando integra la cronofotografia (Frost) o la spettacolarità delle fiere (McCay).

Questo volume è un lavoro colto, ricco di immagini, che si impone come un classico della storia della cultura occidentale riuscendo in un compito arduo: rendere il fumetto un soggetto culturale attivo e trasversale. «Per Hogarth non c’era alcun dubbio: il motore della vita era la curiosità, il suo campo di studio la diversità del mondo, la ricerca di senso un procedimento empirico», scrive Smolderen. Dev’essere proprio perché queste parole valgono anche per il suo lavoro che Le origini del fumetto si presenta come una boccata d’aria e un grande stimolo per il panorama italiano tutto, critico e non solo.

«Storia, cultura e ritmo: jazz dentro», Flavio Massarutto, da Stampa Alter
L’assunto è semplice: jazz e fumetto hanno a che fare con la politica, la società, la storia. Meritano quindi un’analisi accurata tutti quei momenti dove il jazz entra, attraverso i canali citati, nella narrazione a fumetti. Parola di Flavio Massarutto, che scrive di jazz da vent’anni, è autore di un altro volume dedicato alla materia («Assoli di china», Stampa Alternativa, 2011), di cui questo libro sembra essere una seconda parte, e ha firmato anche storie a fumetti. Si parte allora dalla vertente patriottica del jazz, da una parte inserito nel discorso anticomunista in fumetti ambientati nella Guerra di Corea, e dall’altra foriero di valori civili come l’integrazione razziale nelle storie dedicate a grandi musicisti neri quali Art Tatum e Duke Ellington. Indimenticabile Robert Crumb, che in un capitolo revisionista della sua produzione, perlopiù associata alla controcultura, usa i ritratti dei primi grandi bluesman e jazzman per rivendicare il recupero della «musica dei nonni», che rischia di rimanere sepolta. Pietre miliari della denuncia alla brutalità razzista, come la struggente canzone «Strange Fruit» portata alla fama da Billie Holiday, sono raccontate e menzionate in molti fumetti, che soffrono la stessa sorte del jazz nel terribile periodo della morsa proibizionista.

E mentre apprendiamo che il paradiso per Calvin&Hobbes è suonare il sax in un club di New Orleans, il libro ci travolge con centinaia di esempi del legame tra il linguaggio musicale e quello grafico narrativo. Ma non solo: l’autore evidenzia una serie di fenomeni antropologici che si registrano nella storia del fumetto e in quella del jazz. Tra i più interessanti vi sono il passing, pratica che consiste nel farsi passare per altro dalla propria identità (come il fumettista creolo George Herriman, padre di «Krazy cat», che si finse greco per poter pubblicare) e il blackface dei bianchi protagonisti dei ministrel show, spettacoli itineranti nei quali interpreti bianchi si scurivano la faccia per sembrare neri, circostanza parodica sfacciatamente razzista, poi raccontata anche nei fumetti.

C’è un interessante capitolo dedicato alle donne, tutto teso a confutare la frase di Paolo Conte, quando dice che le donne odiano il jazz. Esistono già dai tardi anni ’50 esempi di Romance comics, avventure a sfondo romantico dedicate al pubblico femminile, o di soap opera comics (strisce giornaliere sui quotidiani americani e inglesi) dove le protagoniste subiscono il fascino della musica, e soprattutto dei musicisti jazz. Seguono parti dedicate al Giappone e al jazz europeo, corredate come le precedenti da un cospicuo numero di immagini e di tavole a corollario di quanto menzionato, in un libro che combina la passione del critico con l’accuratezza dell’inventarista, per dar conto della fitta relazione tra il genere musicale della libertà e la narrativa grafica sequenziale: un vero dono per i lettori di nicchia e un invito per tutti gli altri ad approfondire una materia intrigante.