Con gli scrittori di talento Aki Shimazaki condivide la perizia nell’inventare personaggi, storie, mondi compositi e al tempo stesso coerenti, ma la speciale cifra della sua scrittura sta da una parte nella coesione, dall’altra nell’attitudine a imbastire relazioni tra i caratteri che mette sulla pagina, dove spesso un qualche disvelamento consente di annullare le distanze e restituire una visione ordinata e rassicurante di una trama tuttavia complessa. Questa qualità del suo profilo letterario era già evidente nel testo pubblicato nel 2016 da Feltrinelli con il titolo Il Peso dei segreti, che raggruppava diversi romanzi brevi tutti afferenti a un medesimo ciclo; la stessa strategia editoriale governa Nel cuore di Yamato appena uscito da Feltrinelli (traduzione di Cinzia Poli, pp. 410, € 19,50) confermando l’efficacia di una scelta che consente all’immaginazione del lettore di coprire la notevole ampiezza dello spazio e del tempo in cui le singole storie si svolgono.

Nata a Gifu e poi trasferitasi in Canada, Aki Shimazaki evoca il proprio percorso esistenziale in una finzione letteraria che ci porta da Tokyo a Montréal passando attraverso Kobe nell’anno del terremoto; poi, come le libellule usubaki, dal Kyoshu si dirige a nord, fino a sfiorare lo Hokkaido, e a occidente, verso la Manciuria e la Siberia, a esplorare le pagine più buie della storia del Giappone.

Come già nel Peso dei segreti, anche qui è una scoperta inattesa a dare l’avvio alla narrazione, che rinuncia all’ordine cronologico per accentuare una sorta di intimo rigore del caso: presagi, coincidenze, profezie e fatalità conferiscono spessore a un delicato ordito in cui si intrecciano perdite e ritrovamenti, lasciando emergere ancora una volta la profonda vocazione alla sintesi dell’autrice, che attraverso la scrittura intreccia storia personale e collettiva, affidandosi alla dissolvenza incrociata.

Vicende dotate di una precisa collocazione spazio-temporale sfumano in altre, che avendo subito effetti o risonanze dei racconti precedenti assumono contorni più incerti, e a loro volta produrranno effetti sui racconti successivi. Da Tokyo a Bukachacha, da Okinawa a Montréal, da Yokohama a Harbin, in un arco temporale che comprende la Seconda guerra mondiale, gli anni Sessanta, il periodo della bolla finanziaria e il terremoto Hanshin del 1995, la narrazione segue un movimento oscillatorio che alimenta le aspettative del lettore mentre soddisfa la sua curiosità contingente, e seguendo un processo di disvelamento «costruisce» l’avvio al climax. Ritmo e misura si manifestano con chiarezza quando Shimazaki semina nel testo elementi unificanti come la libellula, la melagrana, il trifoglio: veri e propri ganci narrativi, e al tempo stesso correlativi fisici dei riverberi emozionali di una storia al tempo stesso universale e soggettiva.

Come è noto, Shimazaki ha scelto di scrivere in francese, distribuendo tuttavia molti termini giapponesi nei suo testi: la libellula è tonbo, la melagrana zakuro, il trifoglio mitsuba, parole che la pregevole resa italiana conserva in giapponese perché così appaiono nell’originale e che sarebbero state ovviamente tradotte in italiano se il testo di partenza fosse stato in giapponese. Mentre il lettore viene condotto fino a sfiorare la vertigine, grazie al racconto di una esistenza restituita tanto nella sua bellezza quanto nei rimpianti e nelle fatiche, Shimazaki cerca lo scarto nella ibridazione linguistica, con risultati di grande freschezza, che evidenziano una congenita refrattarietà a letture esotizzanti e orientaliste.