Oltre a un’immensa opera di auscultazione filologica e interpretativa di tutti i più grandi autori della letteratura italiana da Dante al Novecento, Ezio Raimondi ci ha lasciato alcuni libri di incredibile grazia in cui, riflettendo sulla propria biografia intellettuale, ha detto meglio di chiunque altro una verità forse elementare, ma proprio per questo bisognosa di essere continuamente ribadita: il contesto nascosto di un libro è una parte importantissima della sua tonalità.

Ogni libro che abbiamo letto e leggiamo ha più voci: quella del loro autore, certo, ma anche quella di chi lo ha letto prima di noi, di chi ce ne ha parlato prima che lo leggessimo, di chi ce lo ha magari prestato, per non parlare dell’importanza del momento in cui lo abbiamo preso in mano per la prima volta. O riusciamo a far emergere quanto anche questa dimensione sotterranea e casuale sia decisiva per orientare in ogni tempo la crescita intellettuale e umana delle persone (ma servono riserve di cultura e umanità che non tutti, non sempre, abbiamo) oppure rimarremo sempre alla superficie.

Fino a qualche anno fa potevamo orientarci nella mente di Raimondi solo grazie alle sue indicazioni: quelle contenute, ad esempio, ne Le voci dei libri (il Mulino 2012), un’autobiografia intellettuale scritta nel modo più onesto, cioè attraverso i libri più importanti per la propria formazione.

Oggi abbiamo uno strumento in più nel libro di Alberto Di Franco Un lettore curioso La formazione culturale di Ezio Raimondi (Pàtron Editore, pp. 228, euro 25,00), che mantiene quel che promette nel titolo con la devozione di un nipote intellettuale. Il libro infatti è dedicato alla memoria del più fedele scolaro di Raimondi, Andrea Battistini, a sua volta curatore di un volume sul proprio maestro intitolato Un lettore inquieto, edito qualche anno fa dal Mulino.

La trasformazione del profilo di Raimondi da lettore inquieto a curioso non deve trarci in inganno: non ci sono intenti agiografici, ma la volontà di incrociare l’autobiografia intellettuale retrospettiva che Raimondi ci ha lasciato nei suoi ultimi libri con quello che ci dicono le carte d’archivio, le annotazioni a margine dei volumi da lui posseduti e qualche prudente incursione nella storia orale.

Tutto questo senza chiudere gli occhi nemmeno di fronte ad alcuni scritti del 1942 sul foglio del GUF bolognese «L’architrave», in cui Raimondi affidava alla Germania e all’Italia il compito di giungere a un «accentramento dei lavori di tutta l’Europa, un primo passo verso quell’unità spirituale e sentimentale (e aggiungiamo corporativa) del continente che solo il lavoro può instaurare e realizzare».

In quel momento Raimondi era destinato a diventare un germanista ed era reduce da un soggiorno di studio a Heidelberg per interessamento di quello che era allora il suo maestro: Lorenzo Bianchi, uno che nel 1943 si era offerto di fare da interprete a Cracovia alla cerimonia di consegna della laurea ad honorem a Hans Frank, il governatore nazista della Polonia. Poi, dopo la fine della guerra, Bianchi venne epurato e comprese che quel giovanissimo studente, che gli era stato segnalato dal preside dell’istituto magistrale e che lui aveva esposto a posizioni molto delicate, andava affidato a mani meno compromesse.

Grazie al libro di Di Franco possiamo così ripercorrere gli incontri decisivi che hanno fatto del fiol del calzuler uno tra i più colti e metodologicamente aperti italianisti del suo tempo.

L’incontro con Franco Serra, ad esempio, che gli spalancò le porte della sua ricchissima biblioteca e lo introdusse alla figura dello zio Renato, lo scrittore e critico cesenate, morto giovanissimo sul fronte del Carso nel 1915, che proprio Raimondi contribuì in modo decisivo a far entrare nel canone della letteratura italiana.

Oppure Roberto Longhi, la figura che più lo influenzò negli anni universitari e da cui, anche se poi seguì la strada della letteratura e non dell’arte, imparò quella sensibilità per il dato materiale che è la dote prima di un filologo. E poi Carlo Calcaterra, il maestro suo come anche di Camporesi e Pasolini; Gianfranco Contini, che trovò subito congeniale l’intreccio tra filologia ed ermeneutica del giovane Raimondi e il suo tirocinio con Longhi e Calcaterra, che aveva fatto la Resistenza con lui in Valdossola; e ancora Giorgio Pasquali, che lo stimava ma non amava lo stile narrativo del suo libro sull’umanista bolognese Antonio Urceo Codro (scelta invece ancora oggi vivissima); o Delio Cantimori, lo storico degli eretici, che esortò Raimondi a mettere per iscritto quelle «velleità manzoniane» che poi divennero Il romanzo senza idillio, il suo libro forse più importante.

Insomma, quella ricostruita da Di Franco è anche una storia della cultura accademica italiana del secondo dopoguerra vista dagli occhi di un suo protagonista.

Cultura italiana è però dire troppo poco: il libro infatti si conclude con gli anni sessanta, quando Raimondi – anche in questo un precursore – fece i suoi primi soggiorni di ricerca e insegnamento negli Stati Uniti.

Al ritorno, attraverso un libro che gli era stato donato in segno di stima dai suoi studenti americani, contribuì a far conoscere in Italia Mikhail Bachtin, lo scopritore (sovietico) del filone carnevalesco nella cultura popolare e di quello straordinario antidoto contro ogni dogmatismo che è la polifonia, cioè l’idea della necessaria compresenza in un’opera che si vuole grande di voci diverse e difficilmente componibili. Le voci dei libri, appunto.