Dal Vhs a Zoom, non poteva finire così. Disertando l’ultimo vertice online, costringendosi a fare il bel gesto da contumace, Silvio Berlusconi è riuscito almeno ad allontanare un finale frigido dalla sua parabola politica, partita con la famosa videocassetta (e la settimana prossima saranno ventotto anni). Patetico però sì, ma patetico almeno quanto i suoi scalpitanti eredi attaccati alla webcam. Viene, non viene, viene. Non viene.

«Avrei i numeri, ma…» è probabilmente l’ultima gigantesca bugia del Cavaliere destinata ad avere qualche peso politico. E questa volta si scrive ultima con un po’ di tranquillità. Del resto lui, politico moderno se ce ne fu uno, non è uomo da collegamenti tecnologici. Bloccato in villa da ogni possibile acciacco, vero o tattico, per collegarsi ai raduni di Forza Italia usa il telefono, il pesante apparecchione sulla scrivania. E non sono passati molti anni, appena cinque, da quando fece ridere – di nascosto, certo, anzi di nascosto e due ore dopo – tutti i componenti dell’ufficio di presidenza di Forza Italia quando aprì la riunione annunciando che il futuro era nella rete e dunque presto avrebbe cominciato a prendere «lezioni di Internet». Prima di allora, lui che è «sceso in campo» quando la rete in Italia ancora non c’era, aveva detto chiaramente che «io non ho bisogno di Internet perché il mio Internet si chiama Gianni Letta». Lo stesso che, al telefono, lo ha convinto a lasciar perdere con questa storia del Quirinale.

Finale obbligato, prevedibilissimo magari anche per quel po’ di allarmato antiberlusconismo che non potevamo farci mancare. Il Cavaliere è ovviamente il contrario esatto di quello che lui stesso, cercando maldestramente di calarsi nei panni dello statista, adesso indica come il candidato ideale «capace di unire». Non aveva neanche il sostegno dei suoi, che lo hanno dovuto sopportare contando i giorni per questa rinuncia. Mentre lui era ridotto a cercare quattro voti con la compagnia di Sgarbi. E il solito telefono.

Adesso gli omaggi, le bugie condivise, l’invenzione delle «molte migliaia di italiani che mi hanno sostenuto». E soprattutto la bugia del centrodestra «che ha voluto formulare la mia candidatura». Quando mai. Neanche quella: gli avevano dato qualche giorno per tornare con la prova che aveva i numeri, sapendo tutti – loro e lui – che non li avrebbe mai avuti. L’hanno spinto fuori. Berlusconi si è fatto spingere fuori perché quella è una strada che da solo non ha mai saputo trovare. I debutti, i ritorni, le epifanie sono state il suo forte e ne ha concesse a decine. Le uscite di scena e le fughe gliele hanno sempre imposte.

Forse è per questo, perché è già accaduto troppe volte che è arrivato il giorno dell’addio di Berlusconi alla politica, che questa patetica resa di ieri sera non sembra all’altezza della tragica storia che la precede. Ieri sera lui non c’era. Ha mandato una nota. L’ha fatta leggere da una senatrice, una delle poche di cui si fida ancora. Non c’era, ma non perché lo hanno incastrato i giudici, lo hanno colpito al volto in piazza Duomo i suoi avversari politici, lo ha piegato la malattia. E nemmeno perché non sapeva come collegarsi via Zoom, visto che ha preso lezioni di internet. Non c’era perché questa volta non aveva più alcun colpo a sorpresa. Neanche più la forza di indicare una strada, un’alternativa, una via – appunto – d’uscita. Ai suoi intriganti alleati ha potuto solo concedere, da contumace, la rinuncia che aspettavano. Così che loro possano cantare, quasi identica, la stessa canzone che per tanti anni gli ha insegnato a ripetere: «Meno male che Silvio NON c’è». E ora?