Nel 1913 Francis Scott Fitzgerald approda all’università di Princeton, ateneo di spicco della elitaria Ivy League: come molti aspiranti scrittori è giovane, arrogante e ambizioso, e sa che lì avrà occasione di entrare in contatto con il mondo apparentemente inarrivabile della pseudo-aristocrazia americana – un pensiero ossessivo che lascerà tracce abbondanti nei suoi romanzi.
Seguendo le orme ideali di Fitzgerald, Alessandro Giammei si trasferisce anche lui, nel 2015, a Princeton per frequentare un post-doc, ulteriore livello di perfezionamento nella pressoché infinita progressione imposta dalla carriera accademica. Una serie ininterrotta di gesti riusciti (Marsilio, pp. 164, euro 12,00) è il diario sentimentale (nel senso più ampio del termine) degli anni americani di questo giovane studioso, un racconto intimista e al tempo stesso estroverso che, sin dal titolo, si presenta anche come un «esercizio» sul libro più noto di Fitzgerald, quel Grande Gatsby spesso citato come un modello di Great American Novel.

Con uno stile brillante e consapevole dei suoi mezzi espressivi, che tradisce gli anni di formazione come italianista, Giammei ritaglia il racconto delle sue esperienze su ventisei capitoli (composti come piccoli saggi d’introspezione), uno per ogni lettera dell’alfabeto inglese e introdotti da altrettante citazioni dal Gatsby, dove i fantasmi dei personaggi creati da Fitzgerald appaiono come in filigrana nell’impianto solidamente autobiografico.

Le ombre di James Gatz, Tom Buchanan, Daisy e Nick Carraway si intrufolano tra gli accademici e gli intellettuali che Giammei incontra e ammira nell’atmosfera culturale e politica dell’università statunitense. Sullo sfondo, seminari dedicati alla necromanzia che includono Benvenuto Cellini e Star Wars; Black Lives Matter, stravaganti goliardie da confraternita e un banchetto trimalcionico – non a caso Fitzgerald aveva inizialmente pensato di intitolare il suo romanzo Trimalchio in West Egg. La luce verde che era il simbolo dell’inarrivabile futuro sognato da Gatsby diventa qui l’ambizioso ma decisamente più fortunato progetto di affermarsi come accademico, obiettivo perseguito con pragmatica ossessione dal protagonista, che filtra ininterrottamente la realtà con la mente analitica e filologica dello studioso di letteratura.

Tutto è ricondotto alle forme, ai modi, ai miti che l’autore deve aver assimilato e approfondito nei suoi studi, come a voler superare la dissonanza cognitiva tra l’America letta e sognata e quella, indubbiamente più complessa seppur non meno affascinante, del vivere quotidiano, fino alla consapevole accettazione: «Poco, davvero poco di questo processo avrà luogo come lo avevo immaginato e pianificato da consumato bovarista: quasi nulla mi sembrerà romanzesco e provvidenziale, mi sarà addirittura difficile scriverne». La vita, insomma, in un romanzo non ci sta (e per fortuna).

Il libro finisce infatti per somigliare più a un esercizio sulla persona di Fitzgerald che a una riflessione sul suo capolavoro, perché Giammei è forse più interessato al confronto sotterraneo tra le vite reali di due coetanei, lui e Gatsby, così lontani nel tempo ma uniti nello spazio, che a una romantica e romanzesca rêverie, privilegiando il dialogo quasi casuale tra due partecipanti, simili e diversissimi, allo stesso party scintillante.