In Italia nei primi decenni del Novecento gli ebrei erano cittadini ben inseriti nella società civile. Molti di loro avevano combattuto e finanziato il Risorgimento italiano, monarchici convinti e leali erano stati decorati durante la prima guerra mondiale, alcuni avevano anche aderito al fascismo. Ad Ancona, dove la Comunità ebraica vantava una storia millenaria, la famiglia Sacerdoti era perfettamente integrata nel contesto cittadino. Abitava in una casa grande, al numero 2 di piazza Stamira, davanti la bella piazzetta-giardino con la fontana in mezzo, un palazzo a più piani proprietà di Sabato Almagià. Cesarina, la più giovane dei fratelli- con lei c’erano Sara, Enzo, Vittorio Emanuele, figli di Celeste Almagià e Rodolfo Sacerdoti -racconta gli anni della sua adolescenza scanditi dalla scuola, dallo sport, dalla musica.

Insofferente per una città che ritiene noiosa, nel ’37 si iscrive alla facoltà di Lettere a Roma. Con le leggi razziali però le cose cambiano anche per lei, che troviamo tra i protagonisti del volume dello studioso di ebraismo e colonialismo italiano Marco Cavallarin La famiglia di piazza Stamira (Affinità elettive edizioni). Notevole la mole di fonti scritte, casse piene di foto, lettere, cartoline, biglietti, diari e ricette di cucina, trovate in valigie ricolme di polvere e ricordi ed utilizzate dall’autore che intervista anche i quattro fratelli, ognuno a modo suo abile a sopravvivere in un tempo profondamente ingiusto.

Cavallarin scrive di eventi e protagonisti senza alcuna retorica celebrativa, non rispetta la cronologia dei fatti ma spiega il contesto operando un lavoro minuto di ricucitura della memoria. Intreccia tra loro gli eventi – il fascismo, l’occupazione tedesca, la fuga, le leggi razziali – e le biografie personali di una famiglia i cui componenti affrontano la situazione in modo diverso tra loro. La primogenita Sara diventa una delle pioniere dei kibbutz. Nel ’34 conosce in un campeggio a Cortina d’Ampezzo Nello Castelbolognesi, convinto sionista e figlio del futuro rabbino capo di Milano, lo sposa e nel ’39 emigra in Palestina. Il secondogenito Enzo, scavezzacollo appassionato di montagna, diventa partigiano.

Vittorio Emanuele, laureatosi in medicina a Bologna, salva gli ebrei del ghetto e infine Cesarina, allegra e spesso ironica, dopo aver sostenuto il primo esame alla università romana, in seguito alle leggi razziali rinuncia volontariamente agli studi nonostante potesse proseguirli. Sara è una pioniera dei kibbutz, in nome della speranza di una terra tutta per sé ne sopporta la vita durissima. Nel ’39 parte in treno da Ancona insieme a Nello, neolaureato in ingegneria, e al piccolo Ariel, nato da pochi mesi. Si imbarcano in una nave dell’ Aliyah bet, baracche vere e proprie che sbarcano in fretta e furia i clandestini scegliendo spiagge isolate. Sono profughi che, se scoperti dagli inglesi, rischiano di finire nei campi di concentramento di Cipro.

La storia di chi fugge da guerre e persecuzioni si ripete tragicamente. Approdano nel kibbutz di Givat Brenner, Nello lavora per due centesimi di paga l’aranceto sotto il sole cocente, poi si trasferisce in fabbrica, mentre Sara si occupa dei bambini, una vita durissima rigidamente regolata dalla scelta comunitaria.

La coppia, a cui nel frattempo nascono altri tre figli, si trasferisce poi a Netzer Sereni, un kibbutz più giovane dove si sta decisamente meglio: in sala pranzo trovano persino le scodelline di panna! Racconta anche del terrorismo della destra ebraica «Ci sono terroristi in Palestina, ma sono una piccola banda di persone, di tendenze fasciste, contrarie alla Agenzia Ebraica, che agiscono di propria testa e che non hanno più legami o simpatie per le colonie socialiste di quello che non avessero i fascisti nel ’22 con Treves o Turati o Matteotti».

Al compimento del secolo di vita Sara intratterrà i suoi ospiti a Askelon cantando «Bella ciao». Altrettanto coinvolgente è il racconto di Enzo che entra nella resistenza a Fiastra e si specializza a far saltare i ponti mentre passano i tank tedeschi. Si arruola nel gruppo del maggiore Antonio Ferri e si sposta in alta montagna. I suoi sono racconti di guerra, parla degli zaini pieni di esplosivo, degli scontri con i tedeschi, le imboscate, i rastrellamenti dei nazifascisti e le delazioni. In quanto a Vittorio Emanuele nel ’41, espulso dall’ospedale di Ancona perché ebreo, va al Fatebenefratelli di Roma dove si presenta al dott. Giovanni Borromeo come nipote di Marco Almagià, suo ex docente universitario.

Era in territorio Vaticano, quindi extraterritoriale. Nonostante le leggi anti ebraiche lavora come assistente medico e nel ‘43 modifica il cognome in Salviucci. Il documento falso gli viene rilasciato dalla cattolica Unitalsi, Unione nazionale italiana per il trasporto degli ammalati.

Al Fatebenefratelli vengono nascosti, tra medici e pazienti, numerosi ebrei e antifascisti. Racconta Vittorio Emanuele: «I rifugiati dovevano stare sempre a letto. I medici li avevano istruiti di tossire sempre e molto perché i tedeschi temevano tubercolosi e malattie infettive». Il dott. Borromeo, nell’ottobre del ’43, si inventa la «sindrome di K», un espediente che gli consente di salvare numerosi rifugiati. Per i tedeschi atterriti, infatti, significava morbo di Koch che costringeva i malati alla quarantena.

Terribile il racconto sul rastrellamento del ghetto romano, il 16 ottobre del ’43. Quel giorno Vittorio Emanuele era di servizio notturno. Una suora lo avvisa che i tedeschi stavano circondando il ghetto per prelevare tutti gli ebrei. Iniziarono alle 5,30 e catturarono ben 1023 persone inviate poi ad Auschwitz, ben 2091 in tutta Roma. Dalla finestra del laboratorio di analisi Vittorio Emanuele vede cose raccapriccianti «Un tedesco spilungone col mitra faceva del male a un ragazzino portandolo via. Una scena come al ghetto di Varsavia. Salimmo sul campanile dell’ospedale che si affaccia sul lungotevere e sulla Sinagoga- ricorda il medico – tedeschi e fascisti entravano nelle case. Si vedevano gruppetti di ebrei, soprattutto bambini, donne e vecchi, con pochi fagottelli in mano».

Quelli che riuscirono a fuggire vennero presi in un secondo tempo, erano per lo più poveri e dovendo andare al lavoro i tedeschi se li andavano a prelevare uno ad uno nelle rispettive case. Quel mattino i primi ebrei arrivano al Fatebenefratelli alle 11 per nascondersi. Solo quel giorno Vittorio Emanuele ne prende in carico 27.

Gli ebrei catturati, invece, vengono caricati in un treno che Cesarina incrocia a Chiusi mentre sta, paradossalmente, ritornando a Roma. La più giovane dei fratelli nel ’42 sposa Elio Ottolenghi ad Ancona con una cerimonia frettolosa nella sinagoga davanti la quale, per terra, campeggiava la scritta «Morte agli ebrei». Nel ’43 cerca di fuggire in Svizzera senza riuscirci, per questo in ottobre decide di rifugiarsi a Roma «città aperta». Cicatrici di una famiglia perbene, un racconto che odora di fili spezzati, sentieri interrotti e riannodati in un mondo diventato impossibile.